«Abbiamo compagnia» disse Candy, accennando alle creature che apparivano tra gli alberi. Si sarebbe aspettata che il grido del Waztrill avesse richiamato creature dello stesso clan, e invece no. Ciascuno dei quattro esseri che comparvero era di una specie diversa. Letheo, l'esperto di mostri, aveva un nome per ciascuno. La bestia viola con la testa piccola e gli occhioni da insetto era un Thrak, disse, mentre la creatura serpentina con la testa come una pala meccanica era un Vexile. La bestia arruffata con il pelo traboccante di parassiti rossi era un Sanguinius; e infine la bestia grassa che camminava sulle zampe di dietro, con la testa che si apriva e si chiudeva come un enorme ventaglio, era un Gibo della Febbre. Eccole lì, tutte riunite: le Bestie di Efreet.

Tenendo lo sguardo fisso sul quintetto meglio che poteva, Candy prese ad arretrare verso la Casa dell'Uomo Morto. La neve ora cadeva più greve. I suoi piedi erano indolenziti dal freddo, e non le obbedivano molto bene. Letheo non stava meglio; a ogni passo stringeva gli occhi dal dolore. Certo le bestie li avrebbero assaliti da un momento all'altro. E invece no. Un gelido passo dopo l'altro Candy e Letheo si avvicinarono alla casa, e ancora le bestie non si mossero. Avevano paura della casa, era per quello? Quale che fosse la ragione, si tenevano a distanza.

«Posso... appoggiarmi a te?» disse Letheo, con voce incerta.

«Ma certo» gli disse Candy, e mormorando dolci parole d'incoraggiamento lo guidò verso la porta.

Erano forse a venti metri dalla Casa quando il Sanguinius, che delle cinque bestie era parso il meno interessato a Candy e Letheo, all'improvviso liberò un ululato titanico. Non attese una risposta dalle altre creature. A quel che pareva aveva vinto la paura della Casa dell'Uomo Morto, perché chinò la testa e si preparò a caricare.

Candy afferrò Letheo per un braccio.

«Corri!» urlò.

Il Sanguinius evidentemente li teneva d'occhio di nascosto, perché puntò direttamente su di loro come un camion a tutta velocità, aprendo un varco tra gli alberi. Letheo cercò di accelerare, ma scivolò e cadde pesantemente sulla poltiglia gelata, scivolando per ben dieci metri sul ghiaccio dentro un boschetto.

Il Sanguinius colse all'istante la difficoltà della sua vittima. Si fermò di botto - con gli enormi zoccoli che scalciavano ventagli di neve - e rivolse la testa cornuta al punto in cui Letheo era caduto. Il ragazzo tentò disperatamente di rialzarsi, ma il boschetto era spinoso, e le spine gli s'impigliavano agli abiti, agganciandosi attraverso giacca e pantaloni, e anche ai capelli. Più lui lottava per liberarsi, più pungevano e lo imprigionavano.

«Candy!» urlò. «Non riesco a muovermi!»

Lei un po' corse un po' scivolò sul suolo ghiacciato per aiutarlo. «Smettila di agitarti» disse. «Stai solo peggiorando la situazione.»

Raggiunse il boschetto e cominciò a liberare Letheo dalle spine, una alla volta. Era un lavoro penoso e difficile. I rovi erano fitti, e questo rendeva due volte difficile separarli dalla trama degli abiti di Letheo. Ben presto Candy si ritrovò con le dita insanguinate.

«Aspetta» disse Letheo. «Ascolta. Si è fermato.»

Il Sanguinius non si era fermato, ma di certo aveva rallentato, come se sapesse che la preda non aveva via di scampo e potesse permettersi di prendere tempo. Con lo sguardo fisso su Letheo, cominciò l'avanzata finale, piantando i grossi zoccoli a fondo nella neve. Il povero Letheo non poteva vedere la bestia; il boschetto annodato era troppo fitto. Era quasi delirante di paura e dolore, e tremava in tutto il corpo.

«Non lasciarmi qui» supplicò. «Ti prego, ti prego, resta con me.»

«Ssst» disse Candy con dolcezza. «Non ti lascerò.»

«No?» disse lui, all'improvviso calmo.

Candy alzò lo sguardo dal suo lavoro e scoprì che lui la fissava con un'espressione strana, quasi perplessa, negli occhi dorati.

«No» disse lui. «Non lo farai, vero?»

«No. Resterò.»

«Tutti fuggirebbero al tuo posto; scappa.»

«Te l'ho detto: zitto.»

«Si salverebbero.»

«Per vedere la bestia che ti divora? No, grazie. Adesso tira su il braccio destro. Avanti. Tira!» Il braccio si liberò. Letheo rise debolmente.

Candy tornò a guardare il Sanguinius. La bestia era sempre più vicina.

«Okay, più o meno sei libero. Sei pronto a correre?»

«Sì. E tu cosa farai?»

«Lo distrarrò.»

Lui le prese la mano. «Non farlo. Ti ucciderà.»

«Tu corri alla casa. Ci vediamo là.»

«No.»

«Augurami buona fortuna.»

Prima che lui potesse dire qualcosa, Candy scattò via dal boschetto, urlando.

«Ehi, zuccone!» Era un insulto che suo padre usava quando parlava di Ricky e Don, e Candy non sapeva come le fosse affiorato alle labbra, ma era così. «Mi senti, zuccone?»

La creatura si fermò nella corsa e la guardò, mentre un cipiglio le corrugava la fronte da criminale.

«Sì, sto parlando con te!» disse Candy, indicando il Sanguinius. «Lordy Lou, sei così brutto.»

La bestia parve capire che la stavano insultando e abbassò gli angoli del grugno immenso per emettere un basso ringhio irritato.

«Be', allora vieni avanti» disse Candy, facendole cenno. «Io sono qui.»

Scoccò una rapida occhiata a Letheo, che ormai era fuori dal boschetto. Poi corse. Il Sanguinius prese a inseguirla all'istante, e il peso del suo vasto corpo fece tremare il suolo sotto di lei. Candy zigzagò tra gli alberi nella speranza di confondere l'essere, e la mossa parve funzionare, perché guadagnò alcuni metri di vantaggio. Azzardò un altro sguardo a Letheo, ma l'aveva perso di vista. Sperando che avesse già raggiunto la casa, corse verso la porta, spendendo le ultime briciole di energia nello sforzo di correre più veloce della bestia alle sue spalle.

Più si avvicinava alla casa, più quella sembrava sovraccarica: ogni cornice di finestra era intagliata in modo complicato, ogni pietra era coperta di muschi e licheni. Anche l'odore che emanava - la nube di antichità nella quale troneggiava - era complicata. Dolce come il fumo d'estate, ma con qualcosa di amaro sotto.

A dieci metri dalla casa, il Sanguinius ruggì di nuovo, Candy si guardò indietro e vide la creatura torreggiare dietro l'angolo: andava così veloce che i parassiti volavano via dal vello impastato. Colpì l'angolo della casa con la spalla, e volarono parecchie schegge di pietra. Candy accelerò e corse sul retro. Vide che c'erano due porte. Tentò la prima: era chiusa a chiave. Scosse lo stesso la maniglia, e fu certa di aver sentito qualcuno muoversi all'interno. Ma nessuno aprì la porta. Guardò indietro, verso l'angolo. La bestia non era ancora apparsa. Così invece di correre all'altra porta, e rischiare che fosse chiusa anche quella, batté il pugno sulla prima.

«Aprite! Presto! Presto!»

Sentì il Sanguinius dietro l'angolo; sarebbe stato su di lei in pochi secondi.

«Per favore!» urlò. «PER FAVORE!»

«Ho smesso di dire per favore un sacco di tempo fa!» disse una voce alle sue spalle.

Si voltò.

E c'era Diamanda, di tutte le persone possibili, vestita di azzurro, che le sorrideva tra la neve.

 

31

Novità a Per Ora

 

La piccola compagnia di avventurieri della buona nave Belbelo vagava ormai da parecchie settimane a Per Ora, in cerca di Finnegan Hob. Fino a quel momento avevano poche ragioni per essere ottimisti. Anche se tutti i racconti dicevano che lui era lì alle Tre del Pomeriggio, intento a cacciare gli ultimi draghi, non l'avevano avvistato. Il tempo era insolitamente caldo per l'Ora, umido e oppressivo, e cominciava a farsi sentire su tutti. Un perenne Pomeriggio poteva sfinire; lasciava le persone ad ansimare come cani stanchi con la lingua fuori. In quel momento erano tutti seduti sotto le foglie enormi dell'albero di giaccolina, mentre la pioggia monsonica - che cadeva regolare, ma faceva ben poco per rinfrescare l'aria - picchiettava. L'albero di giaccolina era in piena fioritura (che cosa, a Per Ora, non era in fiore? Anche le pietre davano fiori, lì), e la pioggia nel colpire i boccioli li faceva suonare come campane. Chi fosse stato in una condizione mentale più felice avrebbe percepito quel suono come grazioso. Ma nessuno della compagnia era dell'umore di alzarsi e danzare secondo l'imprevedibile melodia dell'albero di giaccolina.

«Dannati fiori» disse John Dubbio, che di solito era uno dei più gioviali tra i fratelli John. «E questa pioggia bruciacervello! Sono stanco morto di pioggia e fiori!»

«Per non parlare dell'abbondanza!» disse John Sonnecchio.

«Oh, sì» disse John Serpente. «Questa infinita abbondanza!»

«Potresti far tacere i tuoi fratelli?» chiese Geneva a John Dispitto. «Mi stanno cominciando a dare sui nervi.»

«Possono anche vivere sulla mia testa» disse Dispitto, «ma io non sono il loro padrone. Hanno le loro opinioni...»

«E il diritto di esprimerle» disse John Filetto.

«Pace, pace» disse Tom Due Pollici. «Non serve litigare. Fa solo sudare tutti di più. Meglio andare d'accordo, perché non ce ne andremo di qui finché non avremo trovato l'uomo che siamo venuti a cercare. Finnegan è qui da qualche parte. Questa» e levò la piccola daga che avevano trovato infissa tra due pietre «ne è la prova.»

«Può essere appartenuta a chiunque» disse John Serpente.

«Ma non è così» disse Tria senza tracce di dubbio. «Era sua.»

«Lungi da me l'assentire con John Serpente» disse il Capitano McBean, «ma non abbiamo prove, davvero. E la sapete una cosa? Questo posto sta cominciando a infastidire anche me.»

«Che cos'ha che non va questo posto?» disse John Dispitto. «Per me è il paradiso.»

«Si può averne abbastanza di tutto» ribatté McBean. «Anche del paradiso.»

«E questa flora che cambia ogni mezz'ora» disse John Dubbio. «È sconvolgente. La pioggia cade, spazza via metà delle piante, e spunta qualcosa di completamente nuovo. Sapete che ho visto un frutto che pendeva da un albero che sembrava una faccia? Non è naturale, ecco.»

«Chi siamo noi per dire che cosa è naturale?» osservò Tom Due Pollici.

«Be', lo sapevo che l'avresti detto» replicò John Serpente. «Tu con la tua piccola strana famigliola. Altroché innaturale!»

Thomas non disse niente. Balzò su, e le grosse gambe muscolose lo portarono alto nell'aria sopra la compagnia.

John Serpente squittì di terrore. «Non permettetegli di picchiarmi!»

Ma Tom non aveva scazzottature in mente. Invece afferrò tre foglie giganti sopra i John e le rovesciò. Erano come otri colmi d'acqua, che cadde sui fratelli, inzuppandoli tutti.

«Tipico! Tipico!» disse John Serpente, sputando l'acqua piovana. «Quell'uomo non può accertare una banale osservazione sulla sua...»

«Altra metà» disse Tom, ancora appeso ai grossi piccioli delle foglie di giaccolina. «Si chiama Jim Marea, comunque. È un raccoglitore di ostriche. E ha il mio cuore e io ho il suo, e sarà così fino alla fine del mondo.»

«Be', adesso lo sappiamo» disse McBean.

«Lo incontreremo un giorno?» chiese Tria.

«Siete tutti invitati a venire a mangiare con me e Jim e i nostri animaletti.»

«Avete tanti animali?» chiese Tria.

«Diciannove, l'ultima volta che li abbiamo contati. Un uccello coyne che si chiama Lord Egg. Un vecchio cane da caccia saggio che si chiama San Bartolomeo, il cane col carattere peggiore del creato. Una vecchia gattamolle che è arrivata un giorno, così. Di tutti i generi.»

«Sembra un manicomio» osservò Serpente.

«Be', andremo tutti a pranzo da Jim e Tom e dai loro animali» disse John Dispitto. «E tu puoi aspettare fuori.»

«Ha ha» disse Serpente, acido. «Mi contorco dalle risate.»

«No» disse Tria.

«Era ironico, bambina» sbottò Serpente.

«Tria, non fargli caso» disse Geneva. «È...»

«Solo un poveretto con un brutto carattere, profondamente sgradevole» disse Tria, e la sua sincerità lasciò tutti esterrefatti. «Non ho paura di te, John Serpente. Posso anche essere una bambina, ma io conosco la differenza fra un uomo che ha qualcosa di autentico nel cuore, uno che devo ascoltare, e un falso come te, che dice solo la prima cosa velenosa che gli viene in mente. E comunque hai l'aria da stupido, con quella bocca aperta. Io la chiuderei, se fossi in te.»

Serpente non disse niente. Era comprensibilmente annichilito.

«Credo che abbia smesso di piovere» disse McBean.

Il resto della compagnia emerse dalla copertura dell'albero di giaccolina a guardare l'azzurro perfetto di un cielo di Per Ora rivelarsi sopra le loro teste: le nuvole di pioggia si ritiravano a nord-est. E mentre il sole scaldava l'Ora zuppa, il suolo incantato di Per Ora mise in scena un'altra Genesi, dando vita a una nuova generazione di flora e fauna: dolci profumi, forme e colori scritti secondo un infinito alfabeto di sfumature e modi. La compagnia naturalmente aveva già assistito molte volte a quel fenomeno, ma poiché non c'erano due versi del Libro dell'Inizio che fossero uguali, invariabilmente trovavano nuove ragioni di meravigliarsi. Questa volta non fu l'eccezione.

«Guardate là» disse John Sonnecchio, «quel fiore viola e giallo!»

Il bocciolo che aveva indicato agitò i petali, levò la testa dotata di antenne e si alzò in volo, ispirando una flotta di fratelli con le ali di petalo a imitarlo.

«Forse saremo come quelle moschefiore, uno di questi giorni» disse Tria.

«Cosa intendi dire?» disse Geneva.

«Oh, era solo un pensiero stupido.»

«No, dicci.»

Tria si accigliò. Le parole le uscirono a fatica. «Volevo dire solo che forse un giorno - se restiamo qui abbastanza a lungo, e prendiamo abbastanza pioggia - forse cambieremo tutti. Forse spiccheremo il volo nel vento...» Contemplò il cielo con occhi grandi e luminosi: l'idea chiaramente la affascinava. Poi parve capire all'improvviso che tutti la stavano guardando, e all'improvviso fu presa dall'imbarazzo. «Ma che cosa sto farneticando?» disse, spostando lo sguardo dall'uno all'altro dei suoi compagni. «Sono solo una sciocca» disse. «Scusate.»

«Non è sciocco» disse John Dubbio. «Da quando siamo qui mi sono venute in mente le stesse cose. Credo che siano venute in mente a tutti. Io ne ho perfino parlato con i miei fratelli.»

«Credo che la tua memoria ti inganni» disse John Serpente con arroganza. «Io non ho mai partecipato a una conversazione su qualcuno che diventa un maledetto insetto.»

«Lascialo perdere» disse Tom a Tria. «Continua.»

Tria alzò le spalle. «Ho detto quello che volevo» ribatté. «Solo che...»

«Nel nome del cielo, cosa?»

«Non credo che sia solo qui a Per Ora. Ci sono cambiamenti in corso ovunque.»

«Bella forza» disse John Pizzico. «Certo che le cose cambiano. Che cosa c'è di così importante? Smette di piovere, comincia a piovere...»

«Non è il genere di cambiamenti che intendo» disse Tria.

«Be', puoi essere più precisa?» le chiese Geneva.

Tria scosse il capo. «Non direi» ammise. Si accoccolò e con dolcezza colse un fiorellino rannicchiato nel fango ai suoi piedi. Quello scivolò fuori dalla terra completo di una radice verde pallido che si agitava piano, come se si protendesse di nuovo verso il suolo. «Forse questi cambiamenti sembreranno tutti piccoli all'inizio» disse in tono sognante, come se non capisse bene di che cosa stava parlando. «Ma i loro effetti saranno enormi.»

«E noi?» chiese Geneva. «Noi facciamo parte dei cambiamenti?»

«Oh, sicuro» rispose Tria. «Che ci piaccia o no. Il mondo verrà ribaltato.»

Con tenerezza restituì l'avida piantina alla terra, dove quella affondò con una sorta di cortese gratitudine, voltando la testa circondata di petali verso Tria.

«Sentite?» disse Tom.

«Io non sento niente» disse Geneva.

«Io sì» disse Tria.

Tutti rimasero in silenzio. Ma non sentirono niente.

«Avrei giurato di aver sentito una voce» disse Tom.

«Forse era l'eco delle nostre.»

«No, non era uno di noi» disse Tria. «Tom ha ragione. C'è qualcuno qui vicino.»

Geneva scrutò il paesaggio con attenzione, in cerca di tracce di una presenza.

Tria fece il contrario. Chiuse gli occhi e rimase assolutamente immobile, concentrandosi con enorme cura. Infine disse: «È da qualche parte a sinistra.» Con gli occhi ancora chiusi, indicò. «È molto vicino.»

Poi aprì gli occhi e guardò dalla parte dove aveva puntato il dito. Il paesaggio non era del tutto vuoto. La zona era stata chiaramente spazzata dall'ultimo temporale, ma già recava segni di nuova crescita, che apparivano ovunque a tappezzare il suolo.

«Non mi piace» disse John Dubbio. «Credo che dovremmo andarcene di qui.»

«Non è un drago» disse Tria.

«Come fai a esserne così sicura?»

«Non lo sono. Solo che credo che non lo sia.»

«Finnegan?» disse Geneva.

«Be', dov'è?» intervenne McBean. «Se è vicino, perché non lo vediamo?»

Tria fissò il suolo. «Qua sotto...» mormorò.

«Ecco perché non l'abbiamo trovato» disse Geneva. «È sottoterra!»

«Sottoterra?» chiese Tom.

«Sì» disse Geneva.

«Potrebbe usare i tunnel e le caverne sotto l'isola per avvicinarsi di nascosto ai draghi?» disse Tom.

«Sì, oppure si è perso là sotto» rispose John Sonnecchio. «E adesso non riesce a uscire.»

«Comunque sia, scopriremo la verità» disse Geneva. «Non siamo venuti fino a qui per tornare indietro solo perché è sottoterra.»

«Lasciate che vi guidi io» disse Tria. «Troverò un buco per terra, e lo cercheremo.»

«Tutti d'accordo?» chiese Geneva.

«Qualunque cosa, pur di andarcene da quest'isola» disse McBean.

 

32

Eventi sulla soglia

 

Diamanda sembrava più stanca di come Candy la ricordasse, ma senza dubbio fu una visione gradita. «Ho sentito dire che eri nei guai» disse la vecchia signora.

«Puoi ben dirlo» disse Candy.

Guardò oltre Diamanda e vide il Sanguinius voltare l'angolo. A quel che pareva aveva già annusato la presenza del potere nelle vicinanze, perché aveva rallentato e avanzava cauto, i denti scoperti come un cane impazzito.

Diamanda alzò la mano sinistra e con un gesto elegante disse:

 

«Rimani lì,

Essere!

Io voglio così,

Essere!

O ti farò pentito,

Essere!

Di esser mai nato,

Essere!»

 

La semplicità della formula magica fece sorridere Candy; ma semplice o no, funzionò. L'espressione del Sanguinius si fece di colpo tranquilla e piacevole, e la bestia cadde obbediente a terra, la testa posata sulle zampe davanti. Nonostante la taglia enorme, all'improvviso pareva un animale domestico disteso vicino al focolare.

«Ci sono altre quattro bestie qui fuori» Candy avvertì Diamanda.

«Sì, lo so. Ma quando verranno a cercarci, saremo lontane, di ritorno alla Venticinquesima.»

«Ho tante cose da raccontarti.»

«Ne sono certa.»

«Ma prima che andiamo...»

«Sì?»

«... il ragazzo che mi ha portato su quest'isola - si chiama Letheo - è qui da qualche parte, ed è ferito.»

«Be', dovremo lasciarlo alle tenere cure di qualche samaritano di passaggio» ribatté Diamanda. «Non posso rischiare che ti succeda qualcosa.»

«Non possiamo portarlo con noi?»

«Ti piace questo ragazzo?» chiese Diamanda nel suo solito modo diretto.

«No. Ho solo promesso di non lasciarlo, tutto qui. E non mi piace infrangere le promesse.»

«A dire il vero, so di questo ragazzo. Ha una maledizione nel sangue, non lo sapevi?»

«Sì, l'ho visto. Ha bisogno di prendere delle medicine, così mi ha detto.»

«È stato prima o dopo che ti rapisse?» chiese Diamanda.

«Non voleva farmi del male. Ne sono sicura.»

«Hai una bella capacità di perdonare, ragazza. Te lo concedo. Immagino che non mi sorprenda, visto ciò che so di te. Eppure...» - e sorrise indulgente - «devi stare attenta con la gentilezza. Di solito viene scambiata per debolezza dalla gente stupida.»

«Capisco» disse Candy. «Io non...» Si interruppe e studiò il Sanguinius. «Potrei giurare che mi ha fatto l'occhiolino» disse.

«È impossibile.»

«È vero, Diamanda. Lui...»

Prima che Candy potesse concludere la frase, lo sguardo di Diamanda si spostò a sua volta: non verso la bestia, ma in su, verso una finestra alta sopra di loro. Vide qualcuno che si ritraeva dal davanzale.

«Dannazione!» disse la vecchia signora. «Qualcuno in questa Casa ha appena disfatto il mio incantesimo! Siamo nei guai, ragazza...»

Un attimo dopo il Sanguinius emise un ruggito e si alzò dalla posizione accovacciata. In un attimo i suoi occhi si fissarono su Candy e lui la attaccò, con la bocca aperta come se intendesse mandarla giù e inghiottirla.

Candy arretrò, di un passo, di due. Ma non poteva andare oltre. La porta chiusa a chiave della Casa dell'Uomo Morto era dura contro la sua schiena.

Il Sanguinius emise un respiro fetido. Candy alzò le mani per allontanare la creatura, ma il suo attacco era una finta. Proprio mentre sembrava che le sue mascelle si sarebbero chiuse su di lei, la creatura si voltò e afferrò invece Diamanda. Accadde tutto così in fretta che Candy non ebbe tempo di urlare un avvertimento, men che meno di fare qualcosa per salvare la vecchia signora. Un momento Diamanda era lì in piedi accanto a lei, e quello dopo il Sanguinius aveva l'incantatrice tra le fauci. Candy non aveva mai assistito a niente di così orribile. La scena la colpì nel profondo. Emise un singhiozzo e si gettò contro la creatura in un turbine di frustrazione.

«Lasciala andare!» urlò.

Ma la bestia non aveva intenzione di rinunciare al suo pasto. Invece si ritrasse da Candy con una strana cautela. Lei la innervosiva? Perché? Perché aveva qualche potere. Sì, forse. Aveva cacciato via gli zethek dalla stiva della Parroto Parroto,no? Forse la stessa parola avrebbe funzionato ora.

Troppo arrabbiata per avere paura, inseguì il Sanguinius, richiamando la parola - e il potere che conteneva - in gola. Ma prima di riuscire a liberarla, la bestia chiuse l'enorme bocca con aria disinvolta, e i suoi denti infilzarono Diamanda in decine di punti.

La Sorella della Fantomaya non gridò. Si limitò a levare un sospiro da brivido, e morì. Poi il Sanguinius si voltò e balzellò via, con il corpo floscio di Diamanda penzolante dalla bocca a destra e sinistra, mentre il suo sangue macchiava la neve.

Tremante da capo a piedi, Candy si ritrasse contro la porta chiusa, le mani premute sul viso.

«Basta...» mormorò, «per favore... basta...»

Troppo era successo; era sopraffatta. Prima Babilonium, e la perdita di Malingo, poi i misteri del Palazzo del Crepuscolo e il suo rapimento; ora questo. Perdere una delle poche persone in quel mondo complicato che sembrava capire lei e la sua identità. Morta in pochi terribili secondi. Era troppo, troppo.

Dopo qualche minuto guardò tra le proprie dita. La tempesta peggiorava a ogni soffio di vento. I veli di neve sempre più fitta avevano già inghiottito il Sanguinius e la sua vittima. Mentre Candy guardava, la bestia scomparve.

Alle sue spalle si udì un rumore, l'aspro grattare di un chiavistello che veniva aperto. Fece per alzarsi e allontanarsi dalla porta, ma non fu abbastanza rapida. Mentre quella si apriva, cadde all'indietro, agitando le braccia. Tese la mano in cerca della maniglia per fermare la caduta, ma le sue mani erano troppo indolenzite, il corpo troppo debole, la mente troppo gravata. Ebbe una brevissima visione del mondo in cui era caduta; poi i suoi sensi assediati cedettero, e lasciò volentieri che il buio la portasse via dal mondo.

 

33

Una visita in Marapozsa Street

 

Negli abissi del suo stato di incoscienza, Candy scorse Diamanda. Sulla spiaggia della Venticinquesima Ora, che le sorrideva. Su una barca, seduta tranquilla a guardare le acque, sempre sorridente. E infine - con gran sorpresa di Candy - intenta a camminare per le strade di Chickentown, inosservata dai passanti. Il sogno, o la visione, o quello che era, la rassicurò. Sembrava dire che Diamanda si era già dedicata a un'altra nuova faccenda, il dolore della vita - e della sua morte - dimenticato.

Candy mormorò il nome della vecchia signora nel sonno, e il suono della propria voce la svegliò. Era distesa su un gran letto in una delle stanze più strane che avesse mai visto. Era dominata da un massiccio camino, scolpito nel marmo nero. Un piccolo fuoco brillava incerto nel focolare, le fiamme azzurro pallido alte appena abbastanza da solleticare la gola scura del camino. Eppure c'era luce nella stanza, anche se non proveniva dal fuoco. Si riversava dalle crepe in vari oggetti intorno: da un vaso, da sotto la porta di un armadio, anche dall'alto, tra le tavole di legno lucido del soffitto. E dove i fiotti e i fili di luce s'incrociavano, cosa che accadeva forse in una trentina di punti, emettevano scintille come fuochi d'artificio. Il baluginio riempiva la stanza immensamente alta di ombre danzanti.

Candy si alzò dal letto in cui qualcuno l'aveva gentilmente deposta e fece del suo meglio per orientarsi, ma il movimento costante della luce glielo rese difficile: tutto era pervaso da un'inquietante animazione, grazie alle scintille, come se tutti gli oggetti della stanza fossero vivi. Ma dopo un minuto o due i suoi occhi si abituarono alla danza di luce, e cominciò a esplorare a tentoni la stanza. Su una sedia vicino al fuoco c'erano dei vestiti, chiaramente pronti per lei. Un paio di scarpe blu scuro con i lacci rosso vivo. Un paio di pantaloni molli, viola scuro. Una camicia di colore simile ai pantaloni. E una giacca morbida, che a prima vista sembrava decorata con disegni astratti, ma che una seconda e una terza occhiata rivelavano essere rappresentazioni di creature di qualche Eden Abaratiano: pesci e pennuti, uccelli e bestie, tutti insieme in marcia sull'abito.

Fu grata per il dono. I suoi attuali vestiti erano laceri e umidi. Mentre si metteva le vesti nuove, scoprì che erano tutte fatte di un materiale estremamente amichevole: un tessuto che sembrava entusiasta di coccolarla.

Con la nuova tenuta, si sentì molto più preparata a incontrare il proprietario della casa, perfino un po' curiosa. Aprì la porta e uscì nel corridoio. Era illuminato allo stesso modo della stanza alle sue spalle: luce che colava dappertutto da fessure che s'incrociavano e scintillavano. Il corridoio proseguiva a lungo in entrambe le direzioni ed era ingombro come un deposito di un robivecchi. Per la terza volta in poco tempo - una volta a Babilonium, la seconda nella Wunderkammen del Palazzo del Crepuscolo - si rese conto della curiosa abbondanza di Abarat. A volte sembrava una sorta di enciclopedia delle possibilità; un dall'A alla Z di cose meravigliose e strane, che traboccavano, si riversavano nell'entusiasmo di essere Di Tutto e Di Più. E da qualche parte dentro questa ambizione, lei lo sentiva, c'era un indizio di ciò che era davvero.

Forse il suo ospite lo sapeva. Candy gridò.

«Salute... C'è qualcuno? Salve!»

Non ci fu alcuna risposta a parte l'eco della sua voce, così voltò a destra e si avventurò lungo il corridoio, continuando a gridare. Nell'andare osservò alcune delle stravaganze. La testa impagliata di un animale con la bocca che era un nido brulicante di lingue. Un paravento coperto di uccelli intagliati che parvero spiccare il volo mentre lei si avvicinava. Un tavolo con un gioco che aveva forse trecento pezzi disposti in ordine, in forma di due eserciti: Giorno e Notte.

C'erano segni sia sopra che sotto di altre presenze nella casa. Qualcuno sembrava martellare al piano di sopra, e vicino qualcuno cantava con voce acuta e sottile. Era una canzone triste e stravagante, che aveva sentito da Malingo. Raccontava di un uomo chiamato Sarto Schmitt, che era stato, sosteneva il testo, il sarto migliore di Abarat. Il guaio era che era un po' matto. E ben presto si convinse che il cielo era come un vestito della taglia sbagliata, e i bottoni che lo tenevano al suo posto sarebbero saltati via.

 

«Sarto Schmitt, artigiano stimato

Pensava che il cielo fosse mal tagliato...»

 

Il povero sarto era terrorizzato per le conseguenze di ciò, diceva la canzone, perché allora qualunque cosa si trovasse in attesa dietro il cielo - mostri, forse, o solo un vorace oblio - si sarebbe riversato dall'altra parte in questo mondo. Così, secondo la canzone, passò il resto dei suoi giorni a fare bottoni così che i cieli potessero essere riabbottonati e resi sicuri.

 

«... migliaia di bottoni preparò

Il sarto Schmitt finché poi non spirò.

Forse ora che è morto lui saprà

Ciò che ci minacciava al di là,

Ma noi che con il canto lo ricordiamo

Che si sbagliasse certo ci auguriamo.»

 

Questa era la triste canzoncina che accompagnò Candy mentre attraversava la casa. Ogni tanto apriva una porta e guardava in una delle stanze. C'erano moltissime prove del fatto che la casa era abitata. In una stanza c'era un gran letto in cui di recente aveva dormito qualcuno, a giudicare dalla forma della testa rimasta stampata sul cuscino. In un'altra stanza c'era un tavolino sul quale era posato un grosso uovo appena dischiuso, e la creatura che ne era uscita era una pianta sensitiva.

Candy continuò a chiamare mentre esplorava la casa, e infine trovò qualcuno con cui parlare. Una donna minuscola vestita di nero, con una gorgiera elaborata attorno al collo, discese di corsa il corridoio verso di lei. Le fece un cenno.

«Sei tu la persona che mi ha portato qui?» le chiese Candy.

La donna scosse il capo.

«Sai chi è stato?»

«Mister Masper» disse piano la donna. «E so che vorrebbe parlare con te.»

«Oh. Allora dove trovo questo Mister Masper?»

«Vieni con me» disse la donna, mentre il suo sguardo tutto curiosità passava in rassegna il volto di Candy; studiava i suoi occhi, la sua bocca, perfino le orecchie e la fronte.

«C'è qualcosa che non va?» le chiese Candy.

«No, no» disse lei. «È solo che... non sei come mi aspettavo che fossi.»

«E che cosa ti aspettavi?» chiese Candy.

«Oh, sai. Una donna potente...»

«Io? Devi aver avuto le informazioni sbagliate...»

«Oh, no. Sei tu, quella. Non saresti qui se non lo fossi.»

«A proposito di essere qui...»

«Sì?»

«C'era un ragazzo fuori dalla casa.»

«Letheo. Sì, l'abbiamo trovato.»

«Sta bene?»

«Ora è sotto la protezione di Mister Masper» disse la donna. «Prego, vai avanti.»

«Quindi sta bene?» insisté Candy.

«Ti ho detto...»

«... che è sotto la protezione di Mister Masper» concluse Candy.

Con questo la donna le voltò le spalle e s'incamminò lungo il corridoio.

«Come ti chiami, intanto?» chiese Candy.

«Mrs. Kittelnubetz» rispose la donna senza voltarsi. «È un onore lavorare per Mister Masper.» Si fermò davanti a una porta e la aprì con rispetto, perfino con un filo di cautela. «Goditela» disse, e spinse dentro Candy.

«Godermi che cosa?» chiese Candy, guardando nella stanza.

«La strada dei sogni» disse Mrs. Kittelnubetz.

E mentre parlava, una luce si accese al centro della stanza (che a differenza delle altre e del corridoio era al buio). La luce illuminò uno strano oggetto di legno posato su un tavolo. Era rotondo, alto forse venticinque, trenta centimetri, col diametro di un po' più di mezzo metro. La parete esterna era lucidissima, e suggeriva che qualcuno si desse molta premura per tenerla efficiente. Qualunque cosa fosse, aveva delle fessure, ciascuna poco più larga di mezzo centimetro.

«Che cos'è quello?» chiese Candy, guardando indietro verso Mrs. Kittelnubetz. Ma il corridoio era vuoto. Nei quindici, forse venti secondi dacché aveva distolto lo sguardo dalla donna in nero, quella se n'era andata, lasciando la sua domanda senza risposta.

«Bizzarro» osservò Candy.

Non aveva ancora visto niente. Quando tornò a occhieggiare il marchingegno, vide che aveva cominciato a girare, come se un motorino a orologeria nella base fosse stato attivato. E visibile attraverso le fessure c'era una luce crescente. Ammaliata - e convinta che non ci potesse essere niente di male in una scatola musicale a orologeria, o quello che era - Candy si avvicinò al tavolo, si chinò e scrutò tra le fessure il cilindro rotante.

Whoosh, whoosh, whoosh...

C'era qualcosa di quasi ipnotico nel rumore, e anche nel movimento. Un sorriso soddisfatto comparve sul suo volto, e più si sentiva rilassata, più la luce al centro del cilindro sembrava ardere vivida.

Whoosh, whoosh, whoosh...

C'era qualcosa che si muoveva lì dentro? Sembrava di sì. Strizzò gli occhi, cercando di fissare lo sguardo su ciò che c'era dentro il cilindro rotante. I marchingegni vecchio stile come quello avevano un nome, ricordò. Si chiamavano zootropi, o qualcosa del genere. Avevano dentro delle immagini disposte in modo da creare l'illusione del movimento.

«È forte...» disse, e si avvicinò di più.

E ancora il cilindro accelerava, finché le fessure ruotarono così rapide che si confusero insieme in una sola finestra.

E qual era l'immagine dall'altra parte? Si era aspettata qualcosa di semplice, ma no: c'era una strada illuminata dal sole nel cilindro. E le case e i marciapiedi, i tetti e il cielo non erano dipinti: erano perfettamente realistici. E a passeggiare su e giù per la strada, come se quello fosse un vero giorno e un vero mondo, c'erano uomini e donne (e anche un paio di gorilla), gente bianca e nera, con la pelle dorata e scarlatta. Ciò che avevano tutti in comune, tuttavia, erano le cose straordinarie che portavano in testa. Non sembravano cappelli o acconciature; erano strane fantasie sbucate come torri a molti piani dal loro cranio.

Candy fissò lo spettacolo sbalordita: il suo sguardo venne dolcemente sospinto attraverso la finestra rotante nella visione della "strada dei sogni" contenuta dal cilindro. La sentiva quasi trascinarla, sedurla con la sua luce e la sua bellezza, inducendola a continuare a guardare, a guardare, finché il cilindro girava, continuare a guardare...

Ormai aveva indovinato ciò che vedeva. Mrs. Kittelnubetz aveva dato un nome al mistero: la strada dei sogni, l'aveva chiamata. Il nome ufficiale, che era Marapozsa Street, era scritto su un cartello sul muro, ma il soprannome era certo più preciso. Su quel luminoso percorso la gente non indossava sciocchezze divertenti sulla testa solo perché era di moda. Erano i loro sogni che portavano. Un uomo vagava con quella che pareva una torre con una sola finestra sopra il capo, che bruciava con forza. Su un'altra testa era costruita una cella nella quale era legato un tapino; un'altra (apparteneva a un uomo con un grosso pesce sotto il braccio, che presumibilmente si stava portando a casa per cena) reggeva un minuscolo teatro in equilibrio sulla pelata, con una creatura dalla testa di teschio in piedi al centro del palcoscenico.

Ma le illusioni contenute nel macchinario erano solo l'inizio. La vista di Candy era ancora attratta verso il centro dello spettacolo; c'erano nuove visioni da contemplare dietro ogni angolo, oltre ogni porta e finestra aperte: lampi di vite che non venivano interpretate, così come si interpreta una commedia, ma procedevano naturalmente mentre lei assisteva con noncuranza. Una donna studiava affacciata a un'alta finestra, con i capelli come un boschetto pieno di uccellini colorati. In un altro posto c'era una bestia a strisce grande come un cane di media taglia, con lunghe ciglia e la coda tozza, che reggeva sulla testa un piccolo edificio, poco più di una cupola sorretta da quattro pilastri: l'umile equivalente animale, forse, delle torri complicate che ostentavano gli abitanti a due zampe di Marapozsa Street.

Il cane zebrato sembrava fissare Candy: il suo sguardo era così diretto che attrasse l'attenzione della ragazza ancora più a fondo nell'universo di Marapozsa Street. All'improvviso parve che subire lo sguardo di Candy gli fosse intollerabile, così si voltò e fuggì. Lei lo seguì con gli occhi, lungo un vicolo che tagliava la via. Di nuovo ebbe l'inquietante sensazione di essere trascinata in quel piccolo mondo: ma perché no? si disse. Qual era il pericolo? L'animale la guidò per strade che diventavano sempre più strette via via che si allontanavano da Marapozsa Street. Ma a ogni angolo, per quanto i passaggi diventassero angusti e decrepiti gli edifici, c'erano ancora bizzarrie e meraviglie da osservare.

Un uomo pallido era in piedi a un angolo di strada, e guardava con adorazione il bimbo che teneva tra le braccia, anche se il neonato aveva tentacoli al posto degli arti. In un altro punto una donna sedeva con una grandissima, succulenta fetta di pizza (peperoni, funghi, olive; niente acciughe) in grembo.

Candy aveva perso di vista l'animale che aveva seguito, ma non le importava granché. Aveva molto di più da vedere, come l'uomo che sembrava possedere sangue di pagliacci nelle vene, intento a dipingere qualcosa di fantastico sulle pareti. O la bestia patchwork che stava paziente in piedi nel sole ad allattare i suoi piccoli, due dei quali succhiavano avidi da lei, mentre un terzo si aggrappava alla sua zampa in un'estasi d'amore.

Clown. Madri. Sognatori. Che strano mondo era quello in cui era stata risucchiata. Cominciava a sentirsi un po' sopraffatta dall'esperienza: non solo dalle visioni ma dai rumori e dagli odori. Era ora di tornare indietro, decise; ora di scollare la vista da quel luogo e tornare nella stanza in cui si trovava. Ma come? Era arrivata fin lì seguendo il sentiero della sua curiosità. Ma come faceva a ripercorrere i propri passi?

Forse se solo chiudeva gli occhi, pensò, l'illusione in qualche modo sarebbe svanita, e sarebbe tornata nella stanza in cui le avevano detto che avrebbe incontrato Mister Masper, a osservare il macchinario da una distanza di sicurezza.

Ma non funzionò. Chiuse gli occhi e aspettò nel buio per qualche istante, ma quando li riaprì si trovava ancora nello stesso posto: in trappola dentro il marchingegno.

«Che cosa succede?» chiese a una donna incinta con una piccola foresta che le spuntava in testa. «Perché non riesco a uscire di qui?»

La donna la guardò perplessa, come se non capisse una parola.

«Qualcuno può dirmi cosa succede?» chiese Candy.

Fu il gorilla col muso rosso che infine diede una risposta. «Dove sono i tuoi sogni?» disse. «Qui tutti portano i sogni sulla testa.»

«Ma io non sono di qui» protestò Candy. «Sono venuta da fuori.»

«Fuori?» disse l'uomo barbuto col pesce sottobraccio. «Non esiste un fuori!»

«Oh, sì che esiste» ribatté Candy. «Io a sono stata.»

Guardò il "cielo", sperando che lassù ci fossero prove della stanza oltre quel mondo artificiale. Ma non vide alcuna traccia della sua prigionia. Solo un azzurro immacolato.

Provò una fitta di panico. E se il viaggio che aveva fatto in quel mondo era sola andata? Forse i cittadini sognanti di Marapozsa Street un tempo erano stati tutti, come lei, ingenui visitatori di quel luogo.

Visitatori che avevano scoperto che una volta giunti in quello strano mondo non potevano più uscirne. E mentre il tempo passava si erano dimenticati di aver mai avuto una vita al di là di Marapozsa Street.

Be', poteva anche essere successo a loro, ma non sarebbe accaduto a lei! Non aveva intrapreso un viaggio tra le meraviglie di Abarat - rischiando la vita, le ossa e la salute mentale nel farlo - per finire prigioniera in un mondo artificiale.

«Voglio uscire di qui!» urlò. «E voglio uscire SUBITO! Qualcuno deve sapere come liberarmi.»

Gettò indietro la testa. «Mister Masper! Ci sei? MISTER MASPER!»

«Facci vedere i tuoi sogni» disse l'uomo con la torre ardente in testa. «Andiamo!»

«No!» disse Candy.

«Non essere perversa» disse una donna elegante con un'elaborata colonna di frammenti di sogno in testa. La sua voce, curiosamente, non era diversa da quella dell'uomo con la torre ardente. Strano.

«Mostraceli» disse un altro degli erranti, la sua voce un'eco delle altre. «Vogliamo vedere i tuoi sogni!»

«Li terrò per me» disse Candy.

«Facceli vedere» disse l'uomo col pesce, avanzando verso di lei.

«Non costringerci a obbligarti» disse il gorilla.

«State lontani» disse Candy.

L'uomo ignorò l'avvertimento di Candy. Cercò qualcosa dietro la propria testa e afferrò la coda del pesce, come se avesse l'intenzione di colpirla con quello. Lei non gliene diede l'opportunità. Gli sfilò il pesce di mano e sferrò un colpo alle cose sognate che aveva in equilibrio sul capo. Erano fragili. I pezzi volarono in tutte le direzioni.

L'uomo emise un ululato d'orrore.

«I miei sogni!» urlò. «Guarda che cos'hai fatto ai miei preziosi sogni!»

L'urlo fu ripreso all'istante lungo tutta Marapozsa Street, mentre coloro che avevano assistito all'aggressione di Candy e alle sue conseguenze levavano alte grida.

«Costringetela a mostrarceli!»

«Vediamo un po' i tuoi sogni, ragazza!»

«Adesso! Vogliamo vederli!»

Avanzavano verso di lei da tutti i lati, i volti prima tranquilli ora contratti per la rabbia. Candy cercò di protestare la sua innocenza, ma non erano interessati ad ascoltarla. Non restava che voltarsi e fuggire. Si guardò indietro. Niente di buono. Una parete di buio le impediva di andarsene dalla via. La vista fu accompagnata da un rumore familiare.

Whoosh! Whoosh! Whoosh!

Le fessure rotanti passavano davanti a lei, pericolosamente vicine al suo viso. Se avesse scelto il momento sbagliato per balzare, di sicuro avrebbe colpito la parte solida tra le fessure, e non sarebbe stata una bella cosa. Ma come faceva a sapere quando era meglio saltare? Era come cercare di salire a bordo di una giostra che ruotasse rapida. Se avesse sbagliato i tempi del salto, rischiava di finire lunga distesa, priva di sensi; o peggio, di impigliarsi nel meccanismo ed essere trascinata intorno e intorno e...

"Fallo e basta" si disse, e un attimo dopo era in aria, che volava e cadeva. Ci furono alcuni istanti di puro terrore quando il mondo diventò un luogo sfuocato, colmo del frastuono di ingranaggi rotanti e molle snodate. Temette che il suo incubo fosse diventato realtà, temette di essere caduta nel meccanismo rotante. Alle sue spalle udì i sognatori urlare che sarebbe morta, stupida strega, e tanto meglio, perché meritava di morire. Il rumore dei denti e delle molle divenne così forte che dovette mettersi le mani sulle orecchie per non sentirlo. Anche così non funzionò. Il frastuono filtrava lo stesso, e le faceva pulsare la testa.

«Basta!» urlò.

Forse la sua richiesta fu ascoltata; o forse fu solo fortuna che la fece passare attraverso le fessure rotanti. Comunque fosse, fu liberata dal frastuono pernicioso del meccanismo e cadde in avanti, attraverso le fessure, dall'altra parte. Il rumore cessò all'improvviso, e si ritrovò distesa su un tappeto consunto, con la testa dolente.

«Salute» disse una voce.

Guardò in su. Vicino alla porta c'era un uomo vestito di grigio scuro. «Stai bene?» le chiese.

«Sì... sì...» rispose lei, facendo del suo meglio per alzarsi. Con la coda dell'occhio vide il macchinario girare ancora. Sentì il sibilo, potente come non mai. E più remote, le voci di Marapozsa Street.

«Sono...?»

«Sei che cosa?» disse l'uomo, e tese una mano per aiutarla ad alzarsi.

«È come se fossi stata trascinata dentro quella cosa.» Scosse il capo per capire se riusciva a liberarsi dal senso di dislocazione. Solo quando si fu un po' attenuato si arrischiò ad alzare la testa e a guardare l'uomo in piedi nella stanza con lei.

«Sono Mister Pius Masper» le disse lui. «E possiedo questa casa.»

 

34

Segreti e polpettone

 

Oltre l'incommensurabile crinale tra Abarat e l'Altromondo - a Chickentown, Minnesota - le cose erano più tranquille di quanto fossero state di recente. La curiosità e la preoccupazione sollevate dall'anonimo sfregiamuri al Comfort Tree Hotel si erano raffreddate nell'indifferenza generale, e la sua posizione nell'ordine dato dalla gente agli argomenti meritevoli di pettegolezzo era stata superata dal fatto che il sindaco, Harold Meadows, era stato accusato di prendere mazzette per ignorare alcune infrazioni alla politica sanitaria (in particolare aveva permesso che i rifiuti della macelleria della fabbrica di polli si vuotassero direttamente nelle fogne cittadine, costringendo i contribuenti di Chickentown a sobbarcarsi la pulizia dei tubi intasati). Come risultato della scandalo, Harold Meadows si era impegnato in un'umiliante danza di smentite in modo da non essere radiato, e il suo minuetto "Non-sono-stato-io" gli attirava addosso gli occhi della città.

C'erano alcune eccezioni, alcuni prodi che ancora facevano la ronda fuori dall'albergo notte e giorno, cercando prove di manifestazioni soprannaturali. E c'erano anche due agenti al dipartimento di polizia che dedicavano un'ora al giorno a indagare sulla scomparsa di Candy Quackenbush. Ma la verità è che queste non erano più faccende urgenti. I cittadini di Chickentown avevano altre cose da discutere.

 

Perfino al 34 di Followell Street - a casa Quackenbush - parlare di Candy era diventata di recente una tale fonte di irritazione per Bill Quackenbush che Ricky e Don avevano imboccato la strada della minima resistenza e semplicemente non parlavano mai di lei quando il padre era nelle vicinanze.

E poi, un giorno che erano tutti seduti a tavola per cena e Bill aveva vuotato un paio di lattine di birra, disse: «Ho notizie per tutti.»

«Su che cosa, papà?» chiese Ricky.

«Su tutti noi» rispose Bill Quackenbush, aprendo un'altra birra. «Stavo dicendo a vostra madre che vorrei andarmene da Chickentown. A Chicago, o forse a Denver. Ma adesso sto pensando che dovremmo andare via tutti.. La famiglia.»

I ragazzi cominciarono a parlare insieme.

«Chicago!»

«Quando partiamo?»

«E la scuola?»

Melissa alzò le mani per zittire l'eccitazione. «Non andremo da nessuna parte» disse, guardando con decisione il marito. «Non finché Candy non torna a casa. Non finché non saremo di nuovo una famiglia.»

«È scappata» disse Bill, pronunciando le parole come se stesse parlando con un deficiente. «Melissa, non tornerà; almeno non subito. Forse verrà a bussare alla porta fra qualche anno, con tre bambini e senza marito. Ma adesso se n'è andata, e più presto smettiamo di credere che riapparirà in fretta, più presto potremo tornare a vivere una vita regolare.»

«Ma papà...» disse Ricky, gli occhi pieni di lacrime. «Non possiamo solo dimenticare...»

«Non cominciare a piangere» disse Bill, indicando il figlio. «Mi hai sentito, Ricky? Lo giuro, se cominci a frignare come una stupida bambinetta te lo do io un motivo per farlo.»

Ricky tirò su forte col naso e per pura forza di volontà trattenne le lacrime.

Ma Don, che era a ciglio asciutto, aveva da dire la sua. «Immaginiamo che torni qui» disse. «E noi non ci siamo. Come farà a trovarci?»

«Non è così stupida» disse suo padre. «Chiederà in giro finché non troverà un vicino che sa dove siamo andati.»

«Io non voglio andare in una scuola nuova in una città nuova» continuò Don. «Mi piacciono i miei amici.»

«Te ne farai di nuovi» disse Bill. «E le scuole sono tutte uguali.»

«È chiaro che ci hai riflettuto bene» disse Melissa, gelida. «Ma quando avevi intenzione di dircelo? O dovevamo svegliarci una mattina già pronti per partire?»

«Io sono il capofamiglia» ribatté Bill. «E prendo io queste decisioni importanti. Se non le prendo io, chi lo fa?»

«Oh, sicuro, sei tu, Bill» disse Melissa. «Mister Responsabilità.»

«Posso alzarmi da tavola, per favore?» chiese Ricky, fissando i maccheroni al formaggio ormai gelati e il polpettone essiccato.

«Non hai mangiato niente, tesoro» disse sua madre.

«Non ho fame.»

«Nemmeno io» disse Don.

«D'accordo, andate pure» disse Melissa.

I due ragazzi svanirono in un batter d'occhio.

«Non ho intenzione di cambiare idea» disse Bill dopo aver vuotato la lattina di birra. «Non ho intenzione di marcire qui. Giorno dopo giorno senza niente da fare.»

«Allora trovati un dannato lavoro, Bill.»

«Non ce ne sono.»

«Ce ne sono un sacco.»

«Nessuno che io voglia fare.»

Melissa scosse il capo. «Be', la sai una cosa? Puoi decidere quello che vuoi, ma io non vengo da nessuna parte senza Candy.»

Bill non disse nulla per forse un minuto intero. Poi si alzò e andò al frigorifero e prese un'altra lattina. «Perché non lo ammetti e basta?» disse, senza tornare a tavola. «Se n'è andata. Lo sappiamo tutti e due. Non ci è mai appartenuta, fin dall'inizio.»

Gli occhi di Melissa all'improvviso si riempirono di lacrime. Si premette le palme delle mani contro gli occhi, per cercare di arginare la piena. «Come fai a dirlo? Era la nostra piccola. Sarà sempre la nostra piccola.»

Bill si appoggiò al frigo, fissando il cortile dietro avvolto nel buio. «No» disse. «Non credo che sia mai stata davvero nostra.»

«Che cosa stai dicendo?»

«Oh, andiamo, Melissa. Era una bambina strana, fin dall'inizio. I suoi occhi, intanto...»

«Un sacco di bambini hanno gli occhi di colori diversi» disse Melissa, le lacrime all'improvviso prosciugate dalla rabbia. «E lei non è strana. Il solo problema è che non l'hai mai davvero amata.»

«Ho fatto del mio meglio.» Bill alzò le spalle.

«Quello era il tuo meglio?» Melissa scosse il capo. «Passavano mesi interi senza che quasi le rivolgessi la parola.»

«Okay, non siamo mai andati d'accordo.»

«Sei suo padre, Bill.»

«Davvero?»

Melissa lo fissò con durezza. «Che cosa stai insinuando?»

«Be', sei stata tu a dirlo. È successo qualcosa, la notte che è nata Candy. Tre donne...»

«Oh, e così adesso ne vuoi parlare.»

«Me lo dici o no?»

«Te lo dirò. Ma solo a una condizione.»

«E quale sarebbe?»

«Tu mi devi ascoltare. Tu mi devi credere.»

«Sono due...»

«Bill.»

«D'accordo. Sto ascoltando. Dimmi che cosa è successo.»

Per dieci, venti, trenta secondi Melissa non disse nulla.

«Avanti» disse Bill. «Non sto scherzando, voglio sapere.»

Melissa trasse un profondo respiro. «D'accordo...» disse. «Qualcosa sai già. Le donne che sono venute al camion quando tu eri andato via. Te l'ho raccontato. Sono comparse dalla tempesta. Io gli ho chiesto da dove venivano e loro hanno detto che venivano da un altro mondo. Un posto che chiamavano Abarat.»

«E tu gli hai creduto?» disse Bill.

«Sì. Gli ho creduto. Non so perché ma sapevo, lo sapevo e basta, che mi dicevano la verità.» Bill scosse il capo. «Mi hai detto che volevi sapere che cosa è successo quella notte» sbottò Melissa. «E io te lo sto dicendo. Quindi ascolta.»

S'interruppe per lasciare che l'esplosione di rabbia si placasse. I suoi occhi guardarono la cucina intorno, come per elencare le cose che dovevano ancora essere fatte. L'immondizia da portare fuori; i piatti sporchi da lavare; il geranio morto sul davanzale da buttar via. Elencare quelle cose la calmò. Quando riprese il racconto di quella notte piovosa, la rabbia era svanita. Parlò piano; così piano che Bill dovette tendere l'orecchio per cogliere tutto.

«Non so ancora se era solo un caso che mi trovassero lì» gli disse, «o se in qualche modo ci avevano seguiti. Ma so che temevano di essere state seguite da qualcuno del loro mondo. Quello che facevano probabilmente era contro la legge di Abarat. Ma erano disperate. Avevano qualcosa da darmi, dissero. No, non a me. Alla bambina che stava per nascere. Avevano qualcosa da dare alla bambina. Che avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Ecco che cos'hanno detto. Niente sarebbe stato lo stesso a causa di ciò che erano venute a darle...»

 

35

Due su diciannove

 

Henry Murkitt non dormiva più. Dal tentativo fallito di distogliere gli abitanti di Chickentown dalle loro televisioni e dai loro pettegolezzi, era perseguitato notte e giorno dalla tremenda prospettiva di ciò che attendeva la città che un tempo aveva portato il suo nome.

I sogni che avevano cominciato ad affliggerlo non cessarono solo perché Henry non dormiva più. Invece presero la forma di visioni in pieno giorno, che in certo modo erano più spaventose dei normali incubi. Era alla finestra della stanza diciannove, intento a scrutare oltre il vetro sporco la gente banale che faceva la sua vita normale, quando all'improvviso un'ombra sembrava incombere sulla via, come un giudizio letale che ben presto avrebbe spazzato via tutti. Non temeva per sé (che cosa aveva da temere dalla morte un fantasma?), ma aveva paura, una tremenda paura per gli innocenti che vedeva affannarsi dietro le loro faccende senza capire nulla.

 

«Sei malinconico.»

Henry si voltò dalla finestra, e i suoi occhi si dilatarono per la meraviglia. Dall'altra parte della stanza c'era un volto sul quale non posava lo sguardo da molto, molto tempo.

«Diamanda?» disse. «Non sei veramente tu.»

«Sì, Henry.»

Oh, se gli anni erano stati gentili con lei! Anche se i suoi capelli - che aveva sempre portato lunghi - erano ormai grigi, e il volto era decorato da un tracciato di linee sottili, le ossa sulle quali posava la sua pelle erano ancora eleganti come sempre. Era stata bella in quei giorni remoti in cui era la sua devota moglie, e contro ogni aspettativa era ancora bella. Fu facile ricordare, nei primi pochi istanti in cui posò di nuovo lo sguardo su di lei, da dove fosse sbocciato il suo amore.

«Sei proprio tu?» disse, pronunciando a stento le parole per timore che quel delizioso miraggio si dissolvesse e lo lasciasse di nuovo solo.

«Sì, Henry» disse lei. «Sono proprio io.»

«Ma perché... dopo tutto questo tempo?»

«A essere sincera, Henry, la morte mi ha raggiunto poco tempo fa. E sai, mentre galleggiavo sopra la scena della mia dipartita (che non è stata piacevole), ho scoperto che i miei pensieri si rivolgevano all'istante a te. Tra tutti! È Henry che voglio vedere, ho pensato. Il resto può aspettare. Sono venuta a fare la pace, immagino.»

«Sei venuta, e questo è ciò che conta. Sei venuta. Come facevi a sapere dove trovarmi?»

«Be', è una storia molto lunga e molto breve insieme. La versione breve è: possiedo un paio di occhi e ho guardato.»

«Che cosa è successo al tuo amante di Chicago?»

«Il mio che cosa?» Diamanda rise.

«Il tuo... amante. Mi dicevano tutti...»

«Chiariamo un po' di cose dall'inizio, Henry Murkitt. Qualunque cosa tu abbia sentito dalle malelingue, io non avevo un amante a Chicago. O in qualche altro posto, se è per questo.»

«Sul serio?»

«Henry. Non tornerei dal mondo dei morti per raccontarti una gretta piccola bugia, no?»

«No, suppongo di no.» Si aprì in un sorriso soddisfatto. «Tanto per saperlo» riprese, «perché sei tornata?»

«Prima di tutto, Henry Murkitt, per fare questo.»

Diamanda si avvicinò a Henry e gli depose un bacio leggero sulle labbra. Poi altri sei, per buona misura. Era il primo contatto umano che lui provava da molti anni.

«Oh mio Dio, come mi è mancato...» disse. «Quindi adesso siamo solo due fantasmi, eh?»

«Come dici tu, solo due fantasmi.»

«Come ti è successo? Che sei morta, intendo.»

«Stavo cercando di proteggere una ragazza del tuo mondo, Henry; una fuggiasca chiamata...»

«Candy Quackenbush.»

«Allora hai sentito parlare di lei?»

«È stata qui in questa stanza, solo qualche settimana fa, per una ricerca scolastica. Una ragazza affascinante, così mi è parso.»

«Miss Quackenbush si rivela essere una giovane donna molto potente.»

Henry era perplesso. «Davvero? Mi sorprendi. Sembrava piacevole ma piuttosto normale. Dove vi siete conosciute voi due?»

«In un mondo di cui non abbiamo mai parlato finora» disse Diamanda. «Abarat.»

«Ah! La favolosa Abarat. Posso anche essere rimasto rinchiuso qui per l'ultimo mezzo secolo, ma anch'io ho sentito dire qualcosa di quel posto. Se c'è dell'altro, dimmi.»

«C'è sempre di più, quando si tratta di Abarat. È un mondo senza limiti.»

Lui parve confuso, così Diamanda cercò di spiegarsi, attenendosi a una descrizione semplice. Ma più lei gli diceva, più lui voleva sapere, e ben presto Diamanda si ritrovò a raccontargli tutta quanta la storia. Come se n'era andata per viaggiare ad Abarat; come aveva subito incontrato una donna della Fantomaya e dopo una lunga preparazione era stata portata alla Guglia di Odom, la Venticinquesima Ora, per essere iniziata ai misteri del Tempo Fuor dal Tempo. Anche se quella che raccontava era una storia straordinaria, lui non dubitò per un attimo della sua verità. La conosceva troppo bene. Se gli stava dicendo che c'era un arcipelago in cui ogni isola esisteva a un'ora diversa del giorno, allora era costretto a crederle. Fu solo verso la fine del racconto, quando lei parlò della sua connessione con la magia, che divenne più cauto.

«Lo sai che cos'ha da dire la Bibbia sulla stregoneria» disse. «Non tollererai che una strega viva.»

«Quei vecchi ipocriti. Parlano di uccidere le streghe, ma la Bibbia è piena di magia. Trasformare il Nilo in sangue e separare le acque del Mar Rosso. Che cos'è se non buona magia fuori moda? Vuoi trasformare un po' d'acqua in vino? Non c'è problema! E ridestare quel morto, Lazzaro? Basta che tu lo dica!»

«Cammini su un terreno pericoloso, Diamanda!»

«No, invece. Sto solo dicendo la verità. E chiunque ami la Buona Parola ama la Verità, giusto?»

Il povero Henry era decisamente confuso. In pochi secondi Diamanda l'aveva messo alle strette con la teologia. Vide la perplessità sul suo volto e infine ebbe pietà di lui.

«Mettila così» disse. «La magia tratta del collegamento tra le cose. Del vedere come il potere pervade il mondo. Da te a quella fessura sulla parete, al ragno nella fessura, alla canzone nella testa del ragno, che canta le sue lodi a Dio...»

«I ragni non cantano.»

«Tutto canta le sue preghiere a modo suo, Henry. È questa la magia. Cantare lodi. E i versi che si legano l'uno all'altro, finché il potere scorre... Ti farò ascoltare, una di queste volte, Henry Murkitt, e giuro che sentirai un tale magico alleluia...»

Henry scosse il capo. «Non so chi sia il più pazzo. Tu perché dici queste cose, o io perché per metà ci credo.» Il sorriso incerto che gli aveva illuminato il viso svanì, e lui disse: «Faccio dei sogni. Sogni terribili.»

«A che proposito?»

«Immagino che siano sulla fine del mondo. Almeno, la fine di Chickentown.»

«E tu ci credi?»

«Sì, certo che ci credo! Ho perfino tentato di avvertire la gente di quanto stava succedendo.» Indicò la parete dove il suo messaggio restava graffiato nel gesso.

«Livello Più Alto?» lesse Diamanda.

«Lo so che è vago» disse Henry. «Ma è stata l'unica cosa che mi è venuta in mente al momento. Purtroppo questa gente non vuole ascoltare.»

«Forse possiamo costringerli ad ascoltare, tutti e due.»

«Lo spero.»

«Devo dire, Henry, che hai cambiato registro. Credevo che odiassi Chickentown.»

«Immagino che una volta persa te non avessi nient'altro da amare. O Chickentown o nulla.»

«Ma ti senti? Sei così triste.»

«Be', lo sono. Avrei dovuto passare la vita con te.»

«Be', ora puoi recuperare il tempo perduto. Ci siamo ritrovati. Sei un uomo buono, Henry Murkitt. Meriti un po' di felicità. Un po' di libertà. Quanto spesso esci da questa maledetta stanza, fra l'altro?»

«A dir la verità... non sono mai uscito.»

«Mi prendi in giro!»

«No. Ho sentito di aver peccato quando mi sono tolto la vita. Immagino di aver pensato che meritavo di restare qui dentro fino al Giorno del Giudizio.»

«Be', sono davvero delle gran sciocchezze, Henry. E credo che tu sappia che usciremo insieme. Nel sole.»

«Noi? Quando?»

«Adesso, Henry! Ci andiamo adesso!»

Così uscirono insieme: il Fantasma della stanza diciannove e Diamanda Murkitt, l'amore della sua vita, mano nella mano. Non erano visibili a gran parte degli sguardi che per caso puntavano nella loro direzione, tranne forse come vaghe ombre o una sottile vibrazione dell'aria che li rivelava mentre passavano.

Le loro voci, tuttavia, erano un'altra faccenda. Non erano chiare come voci normali, ma comunque erano perfettamente udibili. Erano come due che sussurrano, scambiandosi pettegolezzi a un angolo vicino. Era l'argomento in questione - l'imminente distruzione della città - che induceva la gente ad ascoltare più da vicino. Parecchie volte mentre camminavano e parlavano sorpresero persone perplesse che si voltavano a guardare il punto in cui si trovavano.

«Credi che il nostro messaggio stia arrivando?» chiese Henry a Diamanda mentre sostavano sotto la statua coperta di cacche di piccioni del suo bisnonno, il fondatore della città.

«Be', di sicuro ci sentono» disse Diamanda. «Ma chissà se vuol dire che ci prestano attenzione. Voglio dire: chi siamo per loro? Siamo solo voci che borbottano in fondo alla loro mente.» Henry non rispose. Fissò Diamanda che continuava a parlare. «È interessante. Hai notato come i neonati e i cani sembrano felici di accettare la nostra presenza? Credo che il futuro di Chickentown sarebbe perfettamente al sicuro se fosse affidato ai neonati e ai cani.» S'interruppe, guardando a sua volta Henry. «Che cosa stai fissando?» disse.

«Te. Guardo te. Sei ancora molto bella.»

«Non è il momento di corteggiarsi, Henry.»

«Se non ora, quando? Dopo tutto il tempo che abbiamo aspettato... non meritiamo di confidarci i segreti più profondi del nostro cuore?»

«Tu, vecchio sentimentale» ribatté Diamanda con affetto.

«E fierissimo di esserlo!» disse Henry. «Dio, Diamanda, il mondo potrebbe finire da un momento all'altro. Dovremmo dire quello che pensiamo. Tu sei bella. Ecco. L'ho detto.» Sorrise, e riparandosi gli occhi dal sole guardò lungo la Main Street. «Quale credi che sarà il primo segnale?» disse. «Voglio dire, di ciò che sta per succedere?»

«Pioggia nel vento» disse Diamanda. «Pioggia salata.»

«Pare che tu ci sia già passata prima.»

«Qualcosa del genere. E lascia che te lo dica, non sarà piacevole. Più riusciamo a fare per mandar via la gente da questa città, meno pianti e urla ci saranno quando tutto sarà finito.»

«Suggerimenti?» si chiese Henry.

«Be', per accelerare le cose dovremmo dividerci. Restare nelle strade principali. E mentre camminiamo, parlare con la gente. Far scivolare nelle orecchie di tutti i nostri avvertimenti. Dire loro di andar via dalla città. Ma farlo in modo così sottile che non sappiano nemmeno che siamo noi. Lasciamo che pensino che sono i loro pensieri.»

«Astuto» disse Henry.

«Di' loro di non fare bagagli. Devono solo andar via.»

«Quanto tempo abbiamo?» chiese Henry.

Diamanda guardò il cielo, studiandolo in cerca di indizi. A quel che pareva non ne trovò, perché infine disse: «Non lo so. Ore, non giorni.» Tornò a guardare Henry. «Dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per salvare queste persone, Henry, o ci ritroveremo con un mucchio di spiriti rabbiosi che ci accusano.»

«Be', non è quello che vogliamo» disse Henry. «Non quando ci siamo appena ritrovati.»

Diamanda sorrise. «Devo dire che è proprio bello vederti, Henry. Molto bello. Ora mettiamoci al lavoro.»

«Diffondiamo la notizia» disse lui.

«Diffondiamo la notizia» gli fece eco lei.

 

36

Lo sposo disseppellito

 

La voce che la compagnia aveva individuato sotto il suolo fertile di Per Ora a volte diventava più alta, a volte più debole. Ma non c'era da dubitare della sua forza, e della sua rabbia.

«Dividiamoci!» disse Geneva. «Cercate dei passaggi per il sottosuolo.»

«Ma fate attenzione» disse Dispitto. «Chiunque si trovi là sotto, sembra un po' matto.»

Camminando cautamente per non irritare o disturbare ancora di più l'uomo sotto di loro, si sparpagliarono, in cerca di un varco che scendesse nelle gallerie.

«Ho trovato qualcosa!» disse Tria.

Ed era vero: il tunnel era opprimente e stretto, foderato di radici, e pullulava di abitatori della terra dotati di molte zampe, quillimedi e pidocchi del terriccio e scorpiti. Quella vista provocò una gran varietà di reazioni.

«È un suicidio andare là sotto» dichiarò John Dubbio, brusco. «Se non veniamo punti a morte, il tunnel quasi certamente ci crollerà addosso.»

«E comunque spaventeremo a morte chiunque ci sia là sotto» disse John Sonnecchio.

«Ma è quello che siamo venuti a fare» sottolineò Geneva.

«Non a finire sepolti vivi, certo che no» ribatté Serpente.

«D'accordo» disse Tom ai fratelli. «Voi restate qui fuori a sorvegliare l'ingresso e noialtri entriamo.» Si spostò verso l'apertura.

«Aspetta!» disse Tria. «Io sono la più piccola. Dovrei andare per prima.»

«Prima che qualcuno diventi troppo entusiasta all'idea di scendere là sotto» disse John Dispitto, «non dovremmo considerare la situazione un po' più accuratamente? Supponiamo che laggiù sottoterra ci sia davvero Finnegan Hob, il gran cacciatore di draghi. Chiediamoci perché si trova là sotto.»

Per tutta risposta calò il silenzio. Tutti si scambiarono sguardi cupi.

«Sì, è giusto, signore e signori: probabilmente è là sotto con un drago.»

«Be', se è vulnerabile come la bestia che abbiamo ucciso in mare» disse Tom, «allora non credo che abbiamo molto da temere da quell'essere.»

«Non essere troppo sicuro di te» disse Geneva. «I draghi marini sono di costituzione delicata. Un sacco di cose possono ucciderli. Il tuo verme di terra, d'altra parte, è parecchio più forte. Vivono fino a mille anni, alcuni, e la loro pelle diventa più forte tutte le volte che la cambiano.»

«Ho sentito dire lo stesso» disse John Dubbio.

«Zitto» disse Dispitto.

«Non zittirmi!» protestò Dubbio.

«No, Dubbio» disse John Filetto, guardando dall'altra parte. «È per il tuo bene.»

«Che cosa?»

«Tutti quanti...» disse Geneva ai John. «Chinatevi.»

«Perché?» borbottò Dispitto.

Geneva afferrò la spada che stava lucidando e disse due sillabe: «DRA-GO.»

«Dove?» disse Tom.

Geneva fece un giro di trecentosessanta gradi su se stessa, puntando la spada. «Tutto. Attorno. A noi» disse.

«Oh Lordy Lou» esalò Dispitto.

«Un ouroboros» disse Tria.

«Che cosa vuol dire?» volle sapere John Dispitto.

«Il serpente che si mangia la coda» sussurrò Tria.

«Ecco perché ci accerchia» disse Geneva, con voce così sommessa che tutti dovettero fare uno sforzo per sentirla.

«Io non lo vedo» disse Tom.

«Sì che lo vedi» disse Tria.

La sua voce aveva una curiosa chiarezza nonostante il bassissimo volume. «Eccolo.» Indicò una collina verde oro. «E là.» Indicò un crinale che sembrava infestato di cactus. «E là. Quella roccia verdeblu...»

«Respira» disse Tom, più sbalordito che impaurito. «Lo sento.»

«Lui sa che siamo qui?» chiese John Serpente.

«Perché non ce lo dici tu?» osservò Dubbio. «Da serpente a serpente.»

«Ha ha» disse Serpente, assai poco divertito.

«In altre parole, non lo sai.»

«Così a occhio» disse Serpente, «lo sa eccome. Sta solo cercando di capire quanti siamo.»

E mentre parlava, dal sottosuolo si levò una nuova esplosione di urla.

«Credo che il verme di terra l'abbia bloccato laggiù» disse Tria, cupa.

«Ecco perché fa tanto rumore» disse Tom Due Pollici. «Sta cercando di attirare l'attenzione del verme. Sta cercando di fare in modo che non attacchi noi...»

Non aveva ancora finito di parlare che il suolo attorno a loro vibrò forte, ed enormi verticali di terra e vegetali volarono nell'aria. Volarono per sei, sette metri, e poi ricaddero in una pioggia tamburellante.

«Ha ragione!» urlò John Serpente. «È tutto attorno a noi!»

Geneva non sussurrava più. Strillava a piena voce. «Armi in pugno!» ululò. «Sa che siamo qui! Preparatevi a combattere!»

Coloro che possedevano piccole armi le sfoderarono, mentre gli altri cercavano qualcosa a terra - qualunque cosa - con cui combattere. E intanto la terra si mosse, e la testa del verme - a forma di pala gigante, piatta e larga e feroce - si levò dal suolo. Era così grossa che il collo faticava a reggerla. Non aveva nulla di elegante o di bello. Un'enorme massa di vegetali gli spuntava dal cranio, e una barba infangata di radici gli pendeva dalla gola. Emanava un odore marcio, come se il suo corpo si fosse decomposto a forza di giacere nella terra umida. Grumi di terriccio gli caddero da sotto il corpo mentre si alzava, ma era impossibile distinguere se fosse il drago a cadere a pezzi o se fossero solo frammenti di terriccio e marciume che crollavano sul suolo.

«Distraetelo!» urlò Geneva, e mentre Tom e McBean attaccavano le zampe davanti del drago, lei mirò al muso con la piccola daga che aveva, e lo perforò quanto più a fondo riuscì. La lama penetrò a stento tra le scaglie, tuttavia, e non ci fu segno che facesse del gran danno alla bestia. Eppure quella sapeva di essere aggredita, e reagì, aprendo la bocca lacera come per divorare Geneva. Con la rapidità di un guerriero nato, Geneva fece una finta a sinistra, poi colpì a destra, affondando la lama nella carne tenera attorno alla narice del drago e spingendo a fondo: così riuscì ad aprire una lunga ferita. Sangue vischioso schizzò da quel punto, emanando un calore ardente insieme a un puzzo di escrementi da far lacrimare gli occhi.

Il verme era ferito, non c'erano dubbi. Arretrò, levando qualcosa di non dissimile a un singhiozzo. Ma il gemito era la sua finta, perché un attimo dopo aggredì la feritrice con sorprendente rapidità, crollando con una forza da spaccare il suolo. Terriccio e polvere di pietra si levarono nell'aria come una nube soffocante. Per alcuni istanti la polvere cancellò tutto: non c'era da far altro che aspettare che si dissipasse.

E poi, il disastro. Da un punto del suolo si levò un rumore di terra smossa, e poi un urlo di Tria.

«Dove sei?» gridò Tom.

«La vedo!» strillò John Dispitto, e indicò un punto nell'aria che si faceva più limpida. Il suolo era ceduto sotto la povera Tria, che stava scivolando nel buio.

Pur ferito, il drago capì in fretta che gli era stata offerta una vittima. Fiutò Tria, con un ringhio di gola: all'improvviso si muoveva come un serpente, pancia a terra.

Tom gli si parò davanti, ma quello, noncurante, lo scaraventò di lato col muso e continuò ad avanzare ondeggiando verso Tria.

«Prendo io la piccola» disse John Dispitto, seduto sul bordo della voragine, pronto a gettarsi.

«John» disse Dubbio. «Sei pazzo?»

«Non sappiamo nemmeno che cosa c'è là sotto!» protestò Serpente.

«C'è Tria là sotto!» ribatté Dispitto.

«Oh, risparmiami gli eroismi!» disse Serpente. «È morta di sicuro...»

Dispitto non perse tempo a discutere. Iniziò a calare semplicemente se stesso e i suoi fratelli giù per la ripa dov'era sparita Tria, verso l'oscurità.

Il drago levò la testa colossale sul collo contorto e scrutò la scena, gli occhi ardenti nel muso incrostato di fango. Fissò lo sguardo su McBean. Il Capitano era caduto malamente quando la terra aveva ceduto, e aveva difficoltà a rialzarsi. Era seduto a poca distanza dal buco, e si massaggiava la gamba, che chiaramente gli faceva parecchio male.

«McBean...» disse John Sonnecchio scendendo nella buca. «Fa' attenzione.»

«Lo so, lo so. È la gamba...»

«No, Capitano. Non mi preoccupo per la...»

Prima che Sonnecchio finisse di parlare, il drago aprì la bocca come un tunnel e corse verso McBean, avvicinandosi così in fretta che il Capitano non ebbe il tempo di difendersi. L'arcata inferiore della bocca del drago s'infilò sotto di lui, che cadde all'indietro nella gola dell'essere. Urlò mentre cadeva: un urlo da bambino piccolo che echeggiò contro il palato della bestia.

«Nythaganius Pejorius!» qualcuno urlò.

Il drago s'interruppe a metà boccone. Tom, Tria e Geneva guardarono nel suolo, dalla parte da cui era venuta la voce che aveva chiamato la bestia. C'era un giovane in piedi in fondo alla voragine, la pelle scura, gli occhi di un verde lucente, i capelli, cresciuti in riccioli rasta, rosso vivo.

«Mi vedi, Nythaganius Pejorius?»

Il verme piegò la testa come un pappagallo irritato, e la sua pupilla si dilatò mentre cercava chi l'aveva chiamato.

«Sì, ti vedo» disse, mentre dai fiori attorno alla sua bocca fioccavano petali.

«Vedi anche che cos'ho sotto il piede, Nythaganius Pejorius?»

L'uomo con i riccioli rossi levò appena il piede, in modo che il verme non avesse dubbi su ciò che vedeva.

«Sì, lo vedo...» disse, con una rabbia gelida nella voce.

«Allora di' ciò che vedi.»

«Finnegan, perché scateni la mia ira?»

«Ho detto parla.»

«È un uovo, Finnegan Hob. È il mio uovo.»

«Il tuo unico uovo.»

«Sì! Sì! Il mio unico uovo!»

«Potrei romperlo.»

«No! Non lo faresti mai. Non il mio uovo.»

«Allora sputa fuori l'uomo che hai appena mangiato.»

«Io?» disse il verme, azzardando un'espressione di pietosa innocenza. «Io non ho...»

Finnegan levò il lungo piede nudo sopra l'uovo e lo contorse e lo agitò come se riuscisse a stento a trattenersi dal calarlo.

«Mostro!» ruggì il drago.

«Rigurgita, verme. Conto fino a tre. Uno...»

«Mostro senza dio!»

«Due...»

«D'accordo! D'accordo! Fa' come credi.»

Il verme fece dondolare più volte la testa, e un conato gli affiorò dalla gola. Così qualche istante dopo il Capitano McBean scivolò giù dalla lingua del drago e dalla sua bocca, atterrando con un tonfo poco dignitoso nella polvere sollevata da tutto quel trambusto. Era coperto da uno spesso strato di saliva di drago, ma a parte quello sembrava illeso.

«Allora, Finnegan Hob» disse il drago. «Mantieni la tua parte del patto.»

«Geneva Peachtree» urlò Finnegan. «Sei tu, vero?»

«Sì, sono io!»

«Allora voglio che tu porti i tuoi amici, compreso lui» - e indicò McBean - «fuori di qui. Io e questo verme rigurgitante abbiamo una faccenda da concludere. E finirà con la morte di uno di noi; questo è certo. Quindi per favore... andate!»

E nel dirlo, infranse la promessa e calò il piede sull'uovo di drago.

 

37

Il proprietario della Casa dell'Uomo Morto

 

Mister Masper era quasi certamente la persona più normale che Candy avesse incontrato nell'intero suo viaggio attraverso Abarat. In effetti assomigliava vagamente a un uomo chiamato Mr. Wìppel, che lavorava al drugstore a Chickentown: tutti e due mansueti, con la faccia pallida e un po' triste e gli occhiali tondi. Come Wippel, Mister Masper perdeva i capelli (le ultime poche ciocche erano incollate alla pelata da un orecchio all'altro). Portava un vestito scuro e sciupato e c'erano macchie di cibo sulla sua cravatta grigia; nel complesso, era una visione desolante. Ma il suo aspetto molto normale a dire il vero fu il benvenuto dopo la folle galoppata che Candy aveva appena intrapreso per Marapozsa Street.

«Sono felice di rivederti» le disse.

«Cos'è quella cosa? Era come se ci fossi intrappolata dentro.»

«Oh, è solo un'anticaglia, si chiama momentario. Dovrei metterla sottochiave, dove non può far danni.»

«Il posto che c'è dentro è vero?»

Masper si tolse gli occhiali, sfilò un fazzoletto bianco dal taschino della giacca e mentre parlava si pulì le lenti. «A essere sincero, non so se è vero o no. Sono sempre stato dell'opinione che quel genere di cose sono di scarsa importanza. Ciò che importa è l'effetto che ha su di te.»

«Be', non mi è piaciuto. Tutti mi chiedevano dov'erano i miei sogni.»

«Be', era tutto perfettamente innocuo» disse Masper. «Hai un bell'aspetto.»

«E invece no!» disse Candy con un improvviso lampo di rabbia. «Ho perso la mia amica Diamanda fuori da questa tua orribile casa. E tu mi hai fatto rapire da Letheo per portarmi qui. Non mi piace!»

«Be', come siamo espliciti» disse Masper, col primo sottile accenno di scortesia che gli filtrava nella voce. Intanto andò a una delle finestre assurdamente alte e strette e guardò il tetro paesaggio di Efreet. La neve ormai cadeva copiosa, e il vento faceva turbinare i fiocchi così forte che esplodevano contro la finestra.

«Dovevo farti arrivare qui in qualche modo. Mi scuso se il metodo è stato un po' brutale.»

«Perché volevi avermi qui? Io non ti conosco.»

«Ma io conosco te, Candy. Letheo è stato crudele con te?»

«No.»

«Perché se lo è stato...»

«Ho detto di no» ribatté lei. «Allora, quando posso uscire di qui?»

«Be', non sarebbe saggio provarci adesso. Fa molto freddo là fuori, come puoi vedere.» Andò alla porta e gridò: «Letheo! Vieni qui, per favore.»

Qualche istante dopo apparve Letheo. Era completamente cambiato. Anche se la ferita sulla testa era ancora fresca, si era ripulito la faccia e pettinato e indossava una giacca e pantaloni neri; la giacca era decorata con lucenti bottoni d'argento, che la chiudevano fino al pomo d'Adamo. Rimase sulla soglia e batté i tacchi dei lustri stivali neri.

«Guardalo» disse Masper, fiero. «Il primo soldato di un nuovo esercito.»

«Di chi?»

Masper le rivolse un sorrisetto. «Credo che dovremmo rimandare la discussione a un altro Giorno, Candy, o no? O meglio, a un'altra Notte.»

«Posso avere un istante del vostro tempo, signore?» disse Letheo. «Da solo.»

«Come, adesso?»

«Sì. È urgente.»

La maschera di benevola indifferenza scivolò via dal volto di Masper per un attimo, e la rabbia arse rapida. «Non sprecare il mio tempo» disse Masper.

«Certo che no, signore.»

«Allora sbrigati...» disse Masper. Si rivolse a Candy: «Resti qui, vero? Ci vorrà solo un attimo.» Superò Letheo e uscì nel corridoio. Non appena fu uscito, Letheo sussurrò: «Esci.»

«Che cosa?»

«Fidati... esci e basta. Rompi la finestra se devi, ma vai via. Vuole ucciderti...»

«Letheo...» gridò Masper dal corridoio.

«Vengo.»

Masper tornò sulla soglia con espressione vagamente divertita. «Che cosa credi di fare, ragazzo? Stringi un patto suicida?»

Tornò nella stanza, e agli occhi di Candy parve tremare, come se si trovasse al centro di un alone di calore.

«Stavo solo...»

«So quello che stavi facendo, Letheo.» Scosse il capo. «Devi proprio imparare: non puoi stare da tutte e due le parti allo stesso tempo. Ne ho abbastanza di questi giochetti» disse. E poi, rivolto a Candy: «Credevo di poter estrarre i tuoi sogni nel modo facile. Ma dopo la nostra breve conversazione ho capito che hai troppa forza di volontà per essere convinta e sei troppo astuta per essere imbrogliata. Quindi dovremo farlo nel modo più duro.»

Mentre parlava, a Candy parve che i suoi occhi si facessero più fondi, più oscuri, e la bocca più larga. La mano gli salì al volto, e si tolse gli occhiali, che si fusero e colarono tra le sue dita: la materia di cui erano fatti evaporò nel nulla.

«Che cosa gli sta succedendo?» chiese Candy a Letheo.

«Vai via e basta...» rispose Letheo.

«Solo qualche sogno» disse l'uomo-che-prima-era-Masper. «Era una richiesta eccessiva? Solo per vedere che cosa succede in quella tua testolina? E invece no. No.» Si voltò verso Letheo e gli puntò un dito contro. «Quanto a te...» disse, «... ti avevo annunciato che cosa sarebbe successo se mi avessi tradito. O no? Allora, sì o no?»

L'alone s'intensificò mentre parlava. La sua forma ondeggiò, e le sembianze di Mister Masper, che erano solo un'illusione, cominciarono a cadergli di dosso. La giacca banale si dissolse, rivelando una veste nera e d'oro. I suoi tratti - che si erano messi a baluginare, come se si scatenassero lampi dietro il suo viso - presero a dissolversi, e al terzo o quarto lampo scomparvero del tutto, rivelando un uomo molto diverso. Dalle sue spalle si levava una sorta di collare translucido, che copriva la parte inferiore del suo viso. Era un serbatoio che conteneva un liquido scuro, che lui inalava con la facilità con cui un pesce respira acqua. Qualcosa si muoveva nel fluido. No, non si muoveva, brulicava, come una congregazione di anguille arrabbiate. Lampeggiavano di elettricità a intermittenza - erano quelli i lampi che aveva visto baluginare - e gettavano una luce impietosa sul suo volto.

Oh, quel volto! Era il ritratto della morte vivente. I muscoli si erano consumati per metà, lasciando le ossa a sporgere attraverso la pelle di pergamena. Gli occhi erano sprofondati nelle orbite, la carne attorno era diventata translucida ed era piena di minuscoli tic. Quando lui si voltò appena, Candy si accorse che il fluido nel collare (o meglio le creature che lo abitavano) si riversava dal retro del cranio quasi calvo. Era orribile a vedersi. E ancora più orribile, capì, a viverci; passare ogni momento di ogni Giorno e Notte intrappolati lì dentro!

Il resto del suo corpo era forte, come per compensare la fragilità della testa; l'abito nero e oro era tagliato in modo da dar l'impressione di amplificare l'anatomia che ricopriva. Le sue mani erano nude, ma enormi: con lunghe dita, e pallide. Portava un anello di foggia elaborata su ogni dito - e sui pollici - e il medio di ogni mano era coperto di guaine d'argento squisitamente lavorato, con punte di spillo come unghie.

Non ebbe bisogno di farsi dire come si chiamava. Lo seppe nell'istante in cui il miraggio dell'innocenza si fu dissolto. Quello era Christopher Carrion, il Sire della Mezzanotte. Era stata in sua compagnia senza saperlo; l'aveva quasi affascinata, a suo modo. Però mai più. Non ora che lo vedeva chiaramente: mai, giurò a se stessa, mai più.

«Prendila, Letheo» disse Carrion. «Voglio farle alcune domande.»

Ci fu un attimo di esitazione, quando parve che Letheo potesse non fare come gli era stato ordinato, e Candy colse l'occasione. Scattò verso la porta, e la sua ombra fu proiettata contro la parete dalle bestie che baluginavano nel collare di Carrion.

«Non sprecare il nostro tempo tentando di andartene di qui» le disse il Sire della Mezzanotte. «Anche se uscissi dalla casa, il che è alquanto improbabile, che cosa ti aspetta là fuori? La morte a causa della neve? O vuoi finire divorata da un Waztrill o da un Sanguinius? E fatti una domanda: perché stai correndo? Non ti sto nemmeno facendo del male, no?»

«Preferirei lo stesso correre i miei rischi fuori di qui, grazie mille.»

«Stupida, stupida ragazza» disse Carrion. «Letheo, per l'ultima volta. Prendila.»

Letheo distolse lo sguardo da Carrion e lo rivolse a Candy. Lei vide il segnale nei suoi occhi. Le stava dicendo di andare.

Lo fece. Corse.

«FERMALA!» ruggì Carrion.

Per un brevissimo istante Candy si guardò indietro e vide che Letheo stava tagliando la strada al suo padrone mentre Carrion avanzava verso la porta. Con un solo potente manrovescio, Carrion fece volare Letheo attraverso la stanza. Il ragazzo urtò la finestra, che s'infranse, e in una gragnola di schegge di vetro scomparve alla vista.

«Ora» disse Carrion, gridando verso Candy. Levò la mano e serrò il pugno, e tutte le lampade nella stanza e nel corridoio si spensero a un tempo. La sola fonte di luce erano le creature nel collare di Carrion. La loro spaventosa luminescenza gettava la sua ombra contro le pareti.

Il Sire della Mezzanotte scosse il capo e concesse un sorrisetto indulgente. «Basta, signora» disse. «Vieni qui. Vieni.»

E nel dire ciò alzò le braccia, come per accogliere Candy in un abbraccio.

«Voglio solo sapere qualcosa dei tuoi sogni» disse.

«E così mi intrappoli in quella cosa...»

«Il momentario? In genere è piuttosto indolore. Ma tu? Tu sei una bella stranezza, Candy Quackenbush. Sento ogni genere di storie. Ovunque tu vada pare che combini guai.» Avanzò verso di lei, e i suoi occhi la trapassarono, come se avesse la capacità di tenerla ferma con lo sguardo. «Be', non procurerai dei guai a me.»

«No?»

«No. Hai viaggiato quanto volevi, Candy Quackenbush. Il solo posto in cui andrai ora è un buco nel suolo. Credimi, sono gentile. Non vorrai certo trovarti qui quando verrà la Mezzanotte...»

«La Mezzanotte?»

«La Mezzanotte assoluta. L'ultimo grande buio, che coprirà le isole dall'alba al tramonto, e per le Ore di oscurità un'oscurità ancora più fitta. Niente luna. Niente stelle.» Sorrise, e il suo sorriso era mortifero. «Starai meglio sottoterra. Non ci saranno orrori là. Solo vermi.»

Candy tentò di cancellare dalla mente le tremende immagini che le parole di Carrion evocavano. Se fosse sopravvissuta a quell'incontro, avrebbe voluto cercare di capire che cos'aveva detto; comunicare le sue parole ad altri; avvertirli dei suoi piani. Quindi più avesse appreso di quei piani, meglio sarebbe stato. Doveva solo trovare un modo per cavargli le informazioni.

«Non vedo come potresti mai spegnere le stelle» disse, fingendo un tono conclusivo. «È semplicemente ridicolo.»

«Non se si hanno gli alleati giusti» disse lui. «Un'innocente come te non avrà mai sentito parlare degli amnioti, naturalmente...»

«Amnioti. No. Che cosa sono?»

«Non lo saprai mai» disse lui.

Lei alzò le spalle. «Bene.»

«Non credere che io non sappia che cosa stai tentando di fare, ragazza. Non sono stupido.» Di nuovo quel sorriso. Orribile oltre ogni dire.

«Oh» disse Candy. «Che cosa sto cercando di fare?»

«Di incitarmi. Così io dirò, in un momento di distrazione, qualcosa che tu potrai riferire ai tuoi amici. Solo che... a chi lo dirai? A nessuno. Tu sei sola. Del tutto sola.»

Era strano, ma per qualche ragione questa idea - di essere sola - all'improvviso parve così sbagliata, così stupida che non poté far altro che ridere. E lo fece.

«Che cosa c'è di tanto buffo?»

«Non sono sola» disse lei, senza nemmeno sapere bene che cosa intendeva dire, ma sapendo con più certezza che mai di avere ragione.

La sua risata lo fece arrabbiare. «Taci» disse Carrion.

Lei continuò a ridere.

«TACI! COME OSI RIDERE DI ME?»

Per un istante la sua rabbia parve esplodere, e le creature attorno alla sua testa sputarono artigli di lampi contro i confini del collare. La loro luce a quel che pareva lo colse di sorpresa, perché chiuse gli occhi per evitarla.

Lei colse l'occasione. Si voltò e corse, con la luminescenza lampeggiante che si riversava dal suo nemico a illuminarle il percorso. Sbatté la porta alle proprie spalle e la chiuse a chiave. Poi si tuffò nel buio del corridoio, senza badare al fatto che nella corsa urtava molti oggetti.

C'era una lampada che ardeva là davanti, oltre i limiti del buio creato da Carrion. Illuminava una tromba di scale: una scala a chiocciola che portava giù in un'altra oscurità d'inchiostro o su verso il tetto. Una volta, all'inizio di quelle avventure, era salita per una scala a chiocciola ed era sfuggita alla morte. Forse avrebbe funzionato una seconda volta. Dietro di lei, Carrion strappò la porta chiusa a chiave, che fu divelta dai cardini.

Candy non si guardò indietro. Salì e basta.

 

38

Il cuore della Mezzanotte

 

Fece i gradini due, anche tre alla volta, finché non ebbe raggiunto il terzo piano. Lì la rampa pareva fermarsi, anche se Candy immaginava che la casa avesse come minimo cinque piani. Allora dov'erano le scale che salivano ancora? Il pianerottolo in cui era approdata aveva parecchi quadri alle pareti, nessuno grazioso, e tre porte. Fece del suo meglio per ignorare i quadri - uno, che ritraeva una creatura che ne divorava un'altra, che ne divorava una terza, che ne divorava una quarta, e così via, in una squallida serie di divoramenti, era particolarmente deprimente - e andò alle porte. Le aprì una dopo l'altra finché non scoprì la scala che saliva ancora.

Si guardò furtivamente indietro. Carrion era sul pianerottolo di sotto, che la scrutava dietro il collare di vetro, gli occhi rivolti all'insù nelle orbite, quasi come se fosse morto. Lei rabbrividì, giurando in silenzio che sarebbe morta piuttosto di lasciare che le mettesse quelle mani appiccicose addosso.

«Lasciami stare!» gli urlò, anche se naturalmente sapeva che non l'avrebbe distolto dal suo intento.

Poi si voltò e riprese a salire, gambe e polmoni ardenti. Le scale si restrinsero via via che si avvoltolavano in alto, ed erano meno stabili gradino dopo gradino. Di nuovo ricordò la salita che aveva avviato quel ciclo di avventure: come si era arrampicata a tentoni su per la scala a chiocciola nel faro, col putrido Mendelson Shape che la inseguiva a passo di ragno.

«Rallenta, bambina» le urlò Carrion. «Non andrai da nessuna parte.»

«Non ho paura di te!» lei urlò in risposta.

«Davvero?» disse lui. Poi di nuovo, più lento e più piano: «Davvero?»

Mentre parlava, le luci che illuminavano la scala si abbassarono una volta, e all'improvviso si spensero. Per qualche istante Candy rimase nel buio più buio, poi - e questo fu in certo modo peggio del buio - lame di luce glaciale sfrecciarono in su dal basso. Sentì il loro tocco, come se Carrion si protendesse attraverso la loro brillantezza e le carezzasse la pelle. Il contatto la disgustò. Cercò di evitarlo premendosi contro la parete mentre continuava a salire.

«Non voglio poi molto da te» disse Carrion inseguendola. «Voglio solo vedere come sono i tuoi sogni. È chiedere tanto? Sento che se conoscessi i tuoi sogni, allora sarebbe come averti vicina per sempre.»

«Perché te ne dovrebbe importare?» ribatté Candy. «Non sai nemmeno chi sono.»

«Sei Candy Quackenbush di Chickentown. Ma c'è qualcosa di più. Tu sai che c'è.»

«No che non lo so.»

«Oh, andiamo... tutte le cose che hai fatto, i guai che hai provocato, le vite che hai distrutto...»

«Io non ho...»

«Non perdere tempo a protestare la tua innocenza» disse Carrion. Lei guardò di nuovo giù per le scale ed eccolo lì, il volto che galleggiava nel buio, acceso dal brillio malsano dei suoi incubi. «Sappiamo tutti e due che in te c'è più di quanto si veda. Perché non mi dici che cosa succede dentro la tua testa?»

«La sai una cosa?» ribatté Candy. «Perché prima non la smetti di inseguirmi?»

«D'accordo» disse Carrion, con gran sorpresa di Candy. Si fermò sulle scale. «Ascoltami» riprese, in tono calmo. «Ormai devi aver capito che non sei qui per caso. Per qualche ragione, la tua vita è legata al destino di queste isole. Non chiedermi perché. Non capisco nulla di te, a parte il fatto che da quando ho appreso della tua esistenza ho saputo anche che una parte di chi sono io è legata a una parte di chi sei tu. E finché non capirò perché, non posso lasciarti andare.»

«Ma se tu risolvessi il mistero, io non dovrei mai più guardarti?»

«Non esserne tanto felice» disse lui, ferito.

«Allora fammi le domande che credi» disse Candy. «Solo, non venirmi più vicino.»

«Grazie» ribatté Carrion, sorridendo il suo sorriso da testa di morto. «Be', da dove cominciamo? Quali sono i tuoi primi ricordi? Il primo cielo che ricordi di aver visto? La prima canzone che hai sentito?»

La fece quasi ridere, sentirlo chiedere cose tanto semplici. C'era pericolo a rispondere? Non ne vide. «Ricordo un vento molto freddo» disse. «Credo che... avesse l'odore del mare. Ma non è possibile, sul serio» aggiunse, quasi a se stessa. «Non c'è il mare in Minnesota.»

«Ma sì che c'è» le ricordò Carrion. «Tu l'hai richiamato solo poche settimane fa. Me l'ha detto Shape.»

«Avevo quasi dimenticato Shape» disse Candy. «Che cosa gli è successo?»

«È morto» osservò Carrion in tono noncurante. «È caduto da certe scale, a dir la verità. Il piede mancante, sai, l'ha fatto... aspetta, aspetta! Ma che cosa faccio, parlo di Shape? Ha! Sei furba; ragazza. Continua coi ricordi. Raccontami della tua vita.»

«Era noiosa. Almeno finché non sono venuta qui.»

«Devono esserci stati dei segni. Indizi. Mattine in cui ti svegliavi pensando: un giorno sarò in un mondo diverso.»

«No.»

«Tu mi nascondi qualcosa.»

«No, davvero.»

«Be', non va bene. Hai detto che avresti parlato.» Levò le mani, mostrando le palme come per fingere di arrendersi. «Lo sai che non hai niente da temere da me. Sul serio, sono sicuro che c'è un sacco di gente che ti ha raccontato cose terribili su di me...» Lasciò che l'osservazione galleggiasse a mezz'aria, aspettando che lei annuisse o lo contraddicesse. Candy non fece né l'una né l'altra cosa. «Be', possono anche avere ragione» disse Carrion infine. «Non ho avuto nessuno che mi mostrasse una via migliore, una via più dolce. Che mi ispirasse, se vuoi. Ho avuto solo mia nonna, Mater Motley. Non è la più dolce delle donne.»

«Dov'è il resto della tua famiglia?»

«Nessuno ti ha mai raccontato la storia?»

«Di che cosa?»

«Della Magione Notturna Carrion?» Candy scosse il capo. «Avevo ventisei fratelli e una sorella. E avevamo un'enorme tenuta a Pyon, con un vasto frutteto di alberi smyrion ai due lati. Mia sorella Theridia era molto golosa di quei frutti. Sgattaiolava sempre nel frutteto e li rubava.»

«Pyon è un'isola della Notte.»

«E allora?»

«C'erano degli alberi da frutto laggiù?»

«Ma sicuro! Nell'Altromondo ci vuole sempre il sole per far maturare i frutti, vero?»

«Sì.»

«Ma alcuni dei frutti migliori di Abarat maturano al chiaro di luna. I frutti di smyrion, per esempio. Comunque, Theridia mangiò un frutto di troppo. Il seme le s'impigliò in gola. Soffocò e morì lì nel frutteto.»

«Oh, Dio...» sussurrò Candy.

«C'è di più. Vuoi sentire il resto?»

«Sì...» disse piano Candy.

«Mio padre aveva un carattere terribile. Avevamo tutti una paura da morire di lui. Non indugiò a piangere mia sorella. Il suo primo pensiero fu di punire il colpevole. In questo caso, un albero. Spedì tutti noi bambini dentro casa e poi uscì con i servi e incendiò il frutteto...» Carrion s'interruppe, e trasse un profondo respiro. Gli incubi avvoltolati nelle acque del suo collare si erano ritirati, e la luminescenza era scemata. «Non cade molta pioggia a Pyon» riprese Carrion. «Almeno non cadeva in quei giorni. Credo che Pixler abbia una macchina del tempo che porta la pioggia, per pulire Commexo City una volta ogni venticinque ore. Ma allora era molto arido. Quando mio padre ebbe appiccato il fuoco, le fiamme in breve si propagarono di ramo in ramo, di albero in albero. Mio padre, nella sua furia, non vide che le scintille volavano nell'aria e venivano trasportate fino alla casa. Aveva chiuso le porte a chiave, per evitare che i suoi bambini si avvicinassero al fuoco. Non immaginava certo che il fuoco sarebbe arrivato da noi. La casa arse in pochi minuti! Solo due di noi sopravvissero. Io e mia nonna. Io ero solo un neonato. Lei mi strappò dalla culla e mi portò al sicuro.»

«E tua madre e i tuoi fratelli?»

«Tutti morti.»

«E tuo padre?»

«Scomparve dopo i funerali, e non lo rivedemmo mai più. Suppongo che potrebbe essere ancora vivo, da qualche parte. Chi lo sa?»

«È così triste...»

«La vita continua. Cerchi di darle un senso, ma alla fine pensi: perché darsi tanta pena? Non c'è alcun senso. La vita. La morte. Niente significa niente.» Tacque. «E poi, così dal nulla, succede qualcosa di sorprendente. Incontri qualcuno che potrebbe aiutarti a venire a capo della tua tristezza, se solo potessi avere quella persona al tuo fianco...» Aveva allontanato lo sguardo da Candy, ma ora la guardò di nuovo, e i suoi occhi erano colmi di tante emozioni che Candy non riuscì a reggerne lo sguardo. «Forse, pensi, lei potrebbe aiutarti a far cessare gli incubi. Capisci quello che sto dicendo?»

«Non credo...»

«Era lei, all'inizio. La Principessa Boa. Era la prima che ho pensato potesse salvarmi. Era buona, sai? Così gentile. Così piena d'amore.» La sua voce all'improvviso si trasformò. Divenne aspra, e i suoi occhi arsero di furia. «Ma non pensava a me. Voleva solo il suo bel Finnegan, il suo tesoro coi riccioli rasta. Io l'ho supplicata. Ho detto: Io ho più bisogno di te di quanto ne abbia lui. Il mio dolore è più profondo. E naturalmente quando fosse venuto il tempo di cambiare le cose su queste isole - e verrà, ormai molto presto - l'avrei messa su un trono accanto a me.

«Ma no, no, no. Doveva essere Finnegan, sempre Finnegan. Io non ero abbastanza bello per lei. Non ero abbastanza principesco per lei. Non ero abbastanza eroico. Infine si stancò delle mie attenzioni moleste e mi gettò via.» La sua voce calò fino a diventare un ringhio grigio. «Credo che abbia vissuto abbastanza da rimpiangere la sua decisione.»

«È stata uccisa, vero?»

«Sì. Un terribile incidente. Il giorno delle sue nozze, di tutti i possibili. Un drago l'ha assassinata!» Trasse un gran respiro. «Così alla fine l'abbiamo perduta tutti e due. Io e Finnegan. E quando se n'è andata, ho pensato che non avrei mai più provato la speranza che stare con lei aveva portato nella mia vita.» Si accigliò molto, come se fosse perplesso per le sue stesse parole, per i suoi stessi pensieri. «Ma mi sbagliavo» disse. «Provo di nuovo quella speranza. Grazie a te.»

 

39

Ossa di drago

 

L'uovo sotto il piede di Finnegan non era pieno di tuorlo di drago; il cucciolo all'interno era pienamente sviluppato e decisamente in grado di difendersi dal suo aggressore. Sinuoso come un serpente, si attorcigliò alla gamba di Finnegan in due o tre secondi, e poi lo morse a un fianco. Finnegan emise un gemito di dolore e afferrò il cucciolo alla base del cranio, strattonandolo a destra e a sinistra per fargli lasciare la presa.

Intanto l'adulto levò il corpaccione e parlò.

«Dovevi saperlo, Hob. Noi draghi veniamo al mondo con la capacità di uccidere un uomo! Mordi più a fondo, piccolo! Risucchiagli le viscere!»

Nythaganius Pejorius era troppo interessato alle fatiche del suo virgulto per notare ciò che facevano gli altri aggressori. Geneva abbassò la spada e corse contro il verme come se la lama fosse quella di una lancia molto corta. Penetrò nel ventre di Pejorius, e Geneva ve la conficcò fino all'elsa. Ne eruttò una furia rossa. Il verme si contorse e si agitò e si contrasse e strillò, e la sua violenza fece scivolare terriccio nel buco in cui era inciampata Tria.

Vedendo Tria a rischio, Dispitto corse in suo aiuto, gettando se stesso e i fratelli ancora più a fondo nel buco.

«Rallenta!» ululò John Dubbio.

«Ci farai uccidere tutti» si lamentò Serpente.

«E state attenti a quel verme neonato!» aggiunse John Sonnecchio.

Il piccolo era davvero un pericolo per loro, perché Finnegan era riuscito a liberare il fianco dalle sue fauci e l'aveva scagliato a terra, tra i frammenti di uovo. Col sapore di sangue umano in gola, il piccolo annusava intorno in cerca di carne fresca. Fissò lo sguardo avido su Tria, e con la noncuranza impavida di un neonato si gettò giù nel buco verso a lei.

«Dobbiamo distrarlo!» disse John Dispitto.

«Lo so!» disse John Sonnecchio. «La canzone di Pugwit! Tutti insieme! Nel solito ordine! Via!»

E con questo Sonnecchio intonò una canzone ridicola.

 

«Zoomit! Zeemit!

Kila Kala Kuumit!»

 

Le parole senza senso furono riprese da John Broda dopo due versi, ma lui cominciò dall'inizio, mentre Sonnecchio continuava a cantare.

 

«Shamshu! Sheshi!

Shalat Shom!»

 

E poi John Serpente e John Filetto presero a cantare, cominciando daccapo, mentre Sonnecchio continuava.

 

«Pugzvit! Wugwit!

WilaWolaWagmit!

Chumshu! Chashu!

Cholat Chom!»

 

Ormai tutti i fratelli cantavano questo assurdo canone, e il risultato era la più tremenda cacofonia. Tuttavia ebbe effetto. Il piccolo drago fu profondamente confuso dal rumore. Dimenticò Tria, almeno per il momento, e guardò i fratelli cantare a squarciagola, con un ringhio minaccioso in fondo alla gola.

Purtroppo i lati della buca stavano diventando instabili, con tutto quel cantare e danzare, e la terra cominciò a scivolare dentro.

«Siamo nei guai!» urlò Dubbio.

«Lo so! Lo so!» ribatté John Dispitto.

«Ragazza!» strillò John Sonnecchio a Tria. «Reggiti!»

Tria prese la mano dei fratelli, e con quella libera afferrò Finnegan. Poi risalirono tutti insieme la parete ormai in disfacimento del buco, nei pochi secondi rimasti.

«Sei ferito» disse Geneva a Finnegan.

«Non è niente che mi possa rallentare!» disse lui. «Ma ho perso la spada. Ne hai una?»

«È là» disse Geneva, indicando il punto nel ventre di Pejorius in cui era stata costretta a lasciare la corta arma.

«Ne ho bisogno...» disse Finnegan, e tornò barcollando verso il verme che si contorceva.

«Non farlo!» urlò Geneva.

Pejorius capì l'intenzione di Finnegan e arricciò le labbra spaccate, scoprendo i temibili denti.

«Tu, ridicolo clown!» sibilò, la rabbia accresciuta dal dolore che la lama di Geneva gli infliggeva. «Vieni qui! Ti sfido a farlo! Ti divorerò e ti terrò vivo nella pancia per un anno o due, sciogliendoti a poco a poco. Come ti sembra come morte, Finnegan Hob? Puoi morire al buio, piano, piano, piano...»

Se Finnegan udì qualcosa di questo disgustoso discorso, non lo lasciò intendere. Attraversò il suolo rivoltato zigzagando e si chinò come un soldato sotto il fuoco nemico, per confondere l'occhio assassino del drago; e così facendo raggiunse il ventre di Pejorius e afferrò l'elsa della spada. Prese subito a tirare, ma la parte difficile la fece quasi tutta il drago, che ritrasse il corpo dalla spada che lo trafiggeva con un ruggito più alto di qualunque altro rumore avesse fatto fino a quel momento. Disturbò un uccello giuffolo dalla testa d'asino nella boscaglia rossa e viola, che spiccò il volo protestando: «Juffetjuffetjuffetjuffet...»

 

«Hai sentito anche tu, Deaux-Deaux?» chiese il Capitano Malingo.

Si trovavano su una strada di roccia biancogialla, che serpeggiava verso l'interno di Per Ora.

«Credo che fosse un uccello giuffolo» rispose Deaux-Deaux.

«No, appena prima dell'uccello» disse Malingo. «Un ruggito. Veniva da un punto lungo questa strada, Deaux-Deaux. Dovremmo indagare.»

«Non dovremmo tornare indietro a chiedere aiuto?» disse il Saltamare.

«Non c'è tempo. Hai sentito quel ruggito, vero?»

«Forse.»

«Era un drago, vero?»

«Ehm... forse.»

«Un drago molto irritato? E per favore non dire forse!»

«Probabile.»

«Allora andiamo. Dove ci sono draghi, probabilmente troveremo Finnegan Hob. E se siamo fortunati non sarà solo.»

«D'accordo» disse Deaux-Deaux. «Dammi solo un momento.» Andò nella boscaglia e colse due noci di thine molto grosse, che spaccò facendole cozzare. «Fa caldo qui per un Saltamare, se non si inumidisce un pochino di tanto in tanto.»

Le noci schizzarono il loro fresco, limpido latte sul suo volto e sulle spalle.

«Così va meglio!» disse.

E s'incamminò su per la strada, con Malingo a seguirlo.

«Che strada singolare» osservò Malingo mentre procedevano a balzi. «Queste pietre sono...»

«Perdona, Capitano, ma non credo che queste siano pietre.»

«Allora che cosa sono?»

«Sono ossa.»

«Ossa di drago?» chiese Malingo.

«Sicuro. Hai certamente sentito parlare della Strada del Drago. È lo scheletro del verme enorme che uccise la Principessa Boa. La sua testa giace a non più di quindici metri dalla porta da cui si insinuò nella cattedrale e srotolò la lingua...»

«E come mai non lo vide nessuno?» chiese Malingo.

Sia lui che Deaux-Deaux ansimavano per lo sforzo di balzare da una vertebra all'altra, ma Malingo voleva delle risposte.

«Molti se lo sono chiesto nel corso degli anni. Io credo che la gente fuori dalla cattedrale sia stata uccisa da assassini in modo da non poter dare l'allarme quando il drago si avvicinò. Quanto alla sua missione, il drago era molto astuto. Non entrò nella cattedrale, sai. Spinse il muso contro la porta, e poi la lingua, che fu la vera arma di questo assassinio, scivolò su per la navata. Era lunga dieci metri interi...»

«Una lingua lunga dieci metri? Come mai non ci si soffocava?»

«Chi sa come vivono queste bestie? O perché fanno quello che fanno? Il punto è che la creatura era bene informata. Sapeva che lo strascico della Principessa arrivava alla porta e che lui poteva intrecciare la lingua alle sue pieghe, infilandosi tra i fiocchi e i fiori. Nessuno guardava a terra, sai. Tutti guardavano Boa e Finnegan. Erano pronti a scambiarsi i voti.»

«E non l'hanno mai fatto.»

«No. La creatura attese fino all'ultimissimo momento, appena prima che la Principessa dicesse: Lo voglio. Aveva le parole sulle labbra. Ma prima che potesse pronunciarle, la lingua del drago le scivolò attorno alla gola e...»

«Sì, sì. Posso fare a meno dei dettagli» disse Malingo.

«Scusa. L'hai chiesto tu.»

«Dimmi chi era il responsabile. Qualcuno ha addestrato il drago, si presume?»

«Senza dubbio» disse Deaux-Deaux.

«E allora chi?»

«Nessuno lo sa. Ci sarebbe voluta una creatura di enorme crudeltà. I draghi reagiscono solo al dolore nell'addestramento, o almeno così ho sentito dire.»

«Ah. Dopo tutti questi anni... nessuno lo sa? Straordinario. E il drago? Fu interrogato?»

«No. Finnegan lo uccise in un accesso di rabbia. Lo prese prima che potesse fare dieci metri.»

«Come fece a uccidere un simile mostro?»

«Oh, era intrepido. Balzò alla gola del drago e si fece inghiottire. Poi ne trafisse tutti gli organi vitali dall'interno e si aprì un buco nel fianco e uscì così dal cadavere! Si discusse molto su cosa fare del corpo, credo, ma alla fine fu deciso di lasciarlo qui perché venisse ripulito. Col tempo diventò una strada. E una sorta di monumento.»

«E nessuno fu mai portato davanti a un tribunale?»

«Non ci furono mai prove sufficienti per accusare qualcuno» rispose Deaux-Deaux. «Anche se non credo che ci siano mai stati molti dubbi su dove stava la vera colpa.»

«Dove?»

«Nella Casa di Carrion» disse Deaux-Deaux. «La vecchia, Mater Motley, probabilmente fu la principale responsabile.»

«Ma non fu mai interrogata?»

«No. E non c'è stato un giudice del Gran Consiglio che abbia osato accusare Mater Motley. Hanno troppa paura di svegliarsi nel cuore della notte per trovare un ricucito seduto in fondo al letto che si affila la coda.»

Erano quasi alla fine della Strada del Drago, ormai. Si arrampicarono su una stretta cresta e avvistarono l'enorme massa di terra rivoltata dove Pejorius era sbucato dal suolo e la buca sulla quale aleggiava una cappa di polvere.

«Bene, bene» disse Malingo. «Guarda là. Abbiamo trovato quelli che cercavamo. Ora dobbiamo solo evitare che finiscano mangiati vivi.»

Deaux-Deaux estrasse un lungo pugnale sottile.

«Hai mai lottato prima contro un drago?» gli chiese Malingo.

«No» rispose Deaux-Deaux. «E tu?»

Malingo scosse il capo.

«Ma c'è una prima volta per tutto» disse, e levando un urlo da far coagulare il sangue corse giù per il declivio verso la buca e ciò che ne era uscito, qualunque cosa fosse.

 

40

Una storia di infinite separazioni

 

Il drago, pur orrendamente ferito, non aveva finito di fare del male. Continuò ad annodare e snodare il corpo nelle convulsioni finali, sputando un insano catalogo di assurdità, inframmezzate da inquietanti periodi di risate folli e di messaggi in altre lingue. Poi, all'improvviso, recuperava lucidità e si scagliava contro chiunque si trovasse a tiro delle sue fauci. Dispitto fu la sua vittima seguente. La bestia afferrò i fratelli e gettò indietro la testa per inghiottirli in un solo boccone. Ma Dispitto non era dell'umore di essere inghiottito. Puntò i piedi contro la mascella dell'animale e le mani contro la mandibola, piantando dita grandi e piccole sui denti dell'essere. Poi s'irrigidì come un'asse e semplicemente si rifiutò di lasciare che il drago chiudesse la bocca.

Se Pejorius fosse stato completamente sano, questa manovra non avrebbe funzionato. Il verme si sarebbe limitato a chiudere la bocca, spezzare la spina dorsale di Dispitto e inghiottirlo piegato in due all'indietro. Ma la ferita subita dalla spada di Geneva lo indeboliva. Ora che la lama non si trovava più nella ferita, il sangue del drago scorreva liberamente dalla fossa nella quale si erano gettati tutti quanti. L'amaro puzzo del peccato e della corruzione riempiva l'aria.

«Non possiamo resistere per sempre!» urlò Dispitto. «Qualcuno per favore vuole...»

L'ultima parola fu pronunciata da Filetto, Sonnecchio, Dubbio, Broda, Serpente, Salice e Pizzico a un tempo con Dispitto, un coro fraterno di AIUTO!

Mentre levavano questo grido, Deaux-Deaux comparve sull'orlo della buca, con Malingo al fianco.

«Chi siete?» chiese loro Finnegan.

«Ci ha mandato la Fantomaya!»

«Allora AIUTATECI!» strillarono di nuovo i fratelli.

«Finiamo la bestia!» gridò Finnegan. Fece un gran cenno ai nuovi arrivati. «Se avete un'arma, usatela!»

Deaux-Deaux sfoderò la spada e balzò nella buca, e a un cenno di Finnegan, il Saltamare, Tom, Geneva e Hob si scagliarono contro il drago, piantando le loro lame nella sua gola nello stesso istante. Non ci furono gemiti, nemmeno un sospiro. Gli occhi del drago si svuotarono di vita, e la bestia crollò a terra nel proprio sangue.

«Andato» disse Tria, molto piano.

Il corpo di Dispitto - che era ancora incastrato nella bocca di Pejorius - di colpo scivolò, e per due o tre istanti di terrore parve che i fratelli finissero giù per la gola morta del drago. Un coro di urla si levò dai John. McBean fu il primo a soccorrerli.

«Resistete, resistete» urlò, e si protese ad afferrare il braccio di John Dispitto. Dai fratelli si levò un secondo coro (stavolta di gratitudine), e poi ecco l'applauso di tutti quando Dispitto infine mise piede a terra.

«Abbiamo corso un rischio enorme» osservò John Dubbio.

«Che cosa è successo al cucciolo?» chiese Finnegan, guardandosi intorno.

«È filato via» disse John Filetto.

«L'hai visto andarsene?» riprese Finnegan. «Perché non l'hai fermato?»

«Al momento eravamo nelle fauci della sua mamma» ribatté Filetto.

«Non andrà lontano» intervenne Malingo. «E poi, che male può fare? È solo.»

Finnegan era cupo. «Te lo dico io che cosa può fare. Può produrre altri della sua specie, quando arriverà all'età della riproduzione» disse. «I draghi sono ermafroditi. Finché ce n'è uno, ce ne saranno molti altri a tempo debito. Come ti chiami, fra parentesi?»

«Malingo» disse il rattopardo; e così ebbe inizio un giro di presentazioni e spiegazioni e ringraziamenti e benvenuti. Quando fu tutto finito, la polvere del conflitto cominciava a depositarsi. E in quel mentre una melodia vivace si levò da un punto della boscaglia, ripresa in fretta da altri punti. La vita animale nei dintorni cantava di gioia, a quel che pareva, ora che il regno di Nythaganius Pejorius era finito.

In effetti, la vera ragione di quel coro improvviso era assai più concreta: era un invito a un banchetto di carne di drago. Questione di mezzo minuto, e gli uccelli giunsero in volo da ogni direzione: alcuni piccoli come colibrì, altri della taglia di avvoltoi, altri eleganti come aironi, altri goffi come pinguini. Prima decine, poi centinaia, finché ci fu un'assemblea rumorosa di parecchie migliaia di pennuti a ricoprire la carcassa di Pejorius dal muso alla coda; insinuavano i becchi sotto le squame della bestia per estrarre per primi gli acari e i pidocchi che prosperavano sul corpo del drago, e poi beccavano la pelle per arrivare alla ricca, saporita carne di sotto.

Il fragore della loro conversazione a cena era così alto che soffocò qualunque possibilità di chiacchiere nella compagnia, così su suggerimento di Finnegan lasciarono gli stormi alla loro gola e lo seguirono fino a una casetta di pietra bianca, che era stata la sua abitazione mentre cercava il drago. Era una dimora spartana: un materasso a terra, con una coperta lisa e uno scomodo cuscino; un fuoco che brillava nel focolare con gli avanzi di una pentola di stufato nel camino. Una mappa di Per Ora era appesa alla parete: un'ampia rete di linee dava conto dei vari viaggi di Finnegan in giro per l'Ora. E al posto d'onore sopra quel letto scomodo, appeso rozzamente all'intonaco screpolato, il semplice ritratto di una giovane donna pallida coi capelli scuri che indossava una tunica turchese e arancione.

«Chi è la signora?» chiese Deaux-Deaux. La domanda gli meritò una gomitata nelle costole da parte di Malingo. «Che cosa ho detto?» chiese Deaux-Deaux.

«È la mia signora» rispose Finnegan, fissando il ritratto. «La mia Principessa Boa.»

«Oh... sì... naturale» disse Deaux-Deaux.

«È bella» disse Tria.

«Il ritratto non mostra nulla della sua vera bellezza. È solo un'eco di un'eco. Lei trasformava l'aria che respirava; lei trasformava la terra su cui camminava. Trasformava tutto ciò che vedeva, così che il mondo divenne nuovo.» Finnegan distolse lo sguardo dal ritratto e guardò fuori dalla finestra, anche se la vista era parzialmente oscurata da una massa di vita vegetale che era cresciuta dopo le ultime piogge. «Il solo modo in cui posso dare un senso alla sua scomparsa è essere lo sterminatore della razza che l'ha assassinata. Solo quando ogni drago sarà morto lascerò andare la mia vita.»

«Lasciar andare la tua vita?» disse Geneva, orripilata per il senso di ciò che aveva detto Finnegan. «Come potresti mai fare una cosa del genere, o anche solo pensarla?»

«Perché la mia vita non è qui, nelle Ore. È con lei. Io voglio essere ovunque sia la mia Principessa. Sono impaziente di andarmene, di sparire per sempre. Ma non prima che tutti i vermi siano freddi.»

«Be', non possono esserne rimasti molti» disse John Dispitto allegramente.

«Hai ragione» disse Finnegan, con qualcosa di simile al piacere nella voce. «L'opera è quasi compiuta. Mi spiace di aver perso quel piccolo... colpa mia. Avrei dovuto sapere che sarebbe fuggito. Ma se vado adesso, e in fretta, la creatura non sarà troppo cresciuta.»

«Ma sei ferito» osservò Geneva.

«Guarisco in fretta. Ho avuto a che fare con ferite peggiori di questa e sono sopravvissuto, credimi. Non c'è tempo da perdere. Quando i draghi sono in alto nella genealogia reale, come quel cucciolo, crescono in fretta. Con il cibo giusto, possono raddoppiare di taglia in un'ora.»

«Stai scherzando.»

«Non scherzo più granché» disse Finnegan in tono di rimpianto. «Certo non sui vermi.» Rivolse lo sguardo triste sul resto della compagnia. «Per favore, riposatevi qui, se volete» disse. «C'è del cibo, che mi porta la tribù Kadosh che vive qui intorno: dolce di michelmas e meejab con curry, nella pentola. Abbastanza per tutti. Mi perdonerete se non mi comporto da bravo ospite.»

«Per favore, aspetta un momento» disse Malingo mentre Finnegan andava alla porta. «Ho ricevuto precise istruzioni di portar via tutti, compreso te, Mister Hob. Le dorme della Fantomaya mi hanno indotto a credere che tu sia fondamentale per l'esito delle cose, se verrà dichiarata guerra.»

«Ho già dichiarato la mia guerra, Mister Malingo» disse Hob. «E la combatto da quasi quindici anni. Ho passato un anno sulle pendici del Monte Galigali, a inseguire i draghi che vivono nei fiumi lavici. È stata una campagna difficile. Sono finito quasi fritto in parecchie occasioni, quando il vulcano ha scatenato la sua furia. Ma ho ucciso i draghi. Sedici. E poi a Spake, che è un luogo verde e bello - come Per Ora senza gli strani cambiamenti tutte le volte che piove - ho cacciato i cinque membri del clan Kaziamia, esseri maledetti e assassini. Piccoli come draghi, ma perfidi. Ci è voluto più di un anno. Ad Autland ce n'era solo uno, ma aveva preso possesso delle rovine di un palazzo, ed era venerato dai contadini del luogo, che giuravano che una goccia del suo sangue curava praticamente ogni malattìa. Tutte sciocchezze, è chiaro. Ma possono essere molto astuti, molto ingannevoli...»

«Non hai forse avuto quello che volevi?» disse John Sonnecchio.

Ci fu un lungo silenzio. Molto, molto lentamente Finnegan guardò i fratelli.

«Quello che volevo?» disse. «Quello che volevo? Prego, che cosa immagini che sia? Avrei raggiunto il mio obiettivo con dieci vermi morti? Dieci volte dieci? O sarebbe bastata la morte di uno solo, secondo te, per avere quello che volevo?»

Sonnecchio aprì la bocca per ribattere, ma John Dispitto posò dolcemente l'indice sulle labbra del fratello e molto piano disse: «Taci, John.»

Geneva s'inserì nel dialogo.

«Mister Hob» disse con enorme rispetto. «Credo che vogliamo che tu sappia che abbiamo bisogno di te. Al momento siamo solo noi, e le donne della Fantomaya...»

«E Candy» disse Malingo.

«Be', forse» disse Geneva. «Ma siamo in pochi, ecco quello che dico. E Carrion è molto forte.»

Gli occhi di tutti erano puntati su Finnegan, e tutti aspettavano una risposta. Lui guardò fuori dalla finestra.

«Lasciate che esca e che ci pensi per un po'» disse. «Prego, servitevi di meejab e dolce di michelmas...»

E con questo chinò appena il capo e uscì.

«Strano tipo» osservò John Dubbio. «Non verrà» disse Tria.

«Deve» disse Malingo. «Diamanda ha insistito molto. Penso che sia convinta che lui sia la chiave di tutto, per qualche motivo.»

«Oh, guardate» disse Tom. «Ancora pioggia.»

Aveva ragione. Qualche grassa goccia di pioggia esplodeva sul davanzale, e lo scroscio si udiva anche sul tetto.

Malingo si avvicinò a Geneva. «Credi che dovrei parlargli?» disse.

«A Finnegan?»

«Sì.»

«Puoi provarci. Ma non ci spererei troppo.»

Malingo uscì sotto la pioggia calda. Finnegan era a parecchi metri dalla casa, il viso rivolto verso la pioggia. Guardò Malingo per un attimo, poi tornò alla sua doccia piovana.

«Conosci la leggenda di questa Ora?» disse.

«No, non credo» rispose Malingo.

«A quanto pare, da qualche parte a Per Ora (anche se io non le ho mai viste) c'è una tribù di creature alate che si chiamano Fathathai. Gente dolce e timida: quasi come angeli. Ce ne sono molto pochi sull'isola perché» - e si guardò i piedi - «perché non trovano l'amore molto facilmente, e così un matrimonio Fathathai è un evento raro. Ma comunque, la leggenda dice che una di queste creature, chiamata Numa Child, s'innamorò.»

«Fortunato.»

«Be', sì e no. Vedi, s'innamorò di una donna che incontrò qui a Per Ora, chiamata Elathuria. Per lui era la donna più bella che avesse mai visto. C'era solo un problema.»

«Quale?»

«Lei non era di carne e ossa come lui.»

«E di che cos'era fatta?»

«Come sai, quest'isola è patria di forme di vita molto strane. Ed Elathuria era una di queste stravaganze.» S'interruppe, poi guardò Malingo e disse: «Era un vegetale.»

Malingo riuscì a reprimere una risata solo perché sul volto stanco dell'uccisore di draghi c'era una serietà mortale. E anche se ci riuscì, Finnegan nondimeno disse: «Tu credi che stia scherzando.»

«No...»

«Ho imparato solo due cose nella mia vita. Uno, che l'amore è l'inizio e la fine di ogni significato. Due, che è la stessa cosa qualunque forma abbiano assunto le nostre anime in questo viaggio. L'amore è l'amore. È l'amore.»

Malingo annuì. «Io non ho avuto alcuna... esperienza personale in questo campo» disse a Finnegan. «Ma... ho letto dei libri. E tutti i grandi sono d'accordo con te.» Finnegan annuì, e per la prima volta dal loro incontro, Malingo vide qualcosa di simile a un sorriso sul volto dell'uomo. «Per favore, raccontami il resto della storia» disse il rattopardo.

«Be', quando Numa Child incontrò Elathuria, lei era in piena fioritura. Era la perfezione. Non c'è altro modo per dirlo.»

«Straordinario.»

«È ancora più strano, credimi. Ti ho detto che Numa Child s'innamorò in un istante? Voglio dire, letteralmente, fu così rapido. Vide Elathuria, ed ecco fatto. Il suo destino fu suggellato.»

«Amore a prima vista.»

«Assolutamente.»

«Tu ci credi?»

«Oh, sicuro. A me è successo. Nell'istante in cui posai lo sguardo sulla Principessa Boa, seppi che non c'era altra anima che potessi mai amare. Non una, fino alla fine delle Ore.» Finnegan guardò la pioggia, che cominciava a diradarsi. Si leccò alcune gocce dalle labbra, poi continuò a raccontare la storia.

«Così Numa Child lo disse subito a Elathuria. "Signora" disse. "Non amerò mai nessuno come amo voi." E con sua grande sorpresa, Elathuria lo invitò a baciarla.

«"Presto" disse. "Perché il sole è caldo e l'Ora sta passando."

«Numa non pensò molto al senso di queste parole. Fu solo felice di essere invitato a baciare l'amata. E mentre si baciavano e parlavano e si baciavano di nuovo, l'ora di Per Ora si dissipava...»

«Non finisce bene, vero?» disse Malingo.

Finnegan non rispose. Continuò a raccontare. «Quando Numa Child la baciò ancora, c'era qualcosa di amaro sulle sue labbra.

«"Che cosa succede?" le chiese.

«Lei gli disse: "Il tempo passa, mio amato."

«E con suo orrore, egli vide che i boccioli di lei, che erano così belli e splendenti la prima volta che lui l'aveva guardata, cominciavano a perdere il loro smalto, e le sue foglie verdi cominciavano a diventare d'oro e brune.»

La voce di Finnegan, nel narrare questa parte della storia, si fece dolce e piena di tristezza.

«Infine lei gli disse: "Non lasciarmi, amore. Promettimi che non mi lascerai mai. Trovami, ovunque io vada. Trovami."

«Naturalmente, Numa non capì che cosa gli stava dicendo. "Cosa intendi dire?" le chiese.

«Ma ben presto fu chiaro. Lei lo stava lasciando. Si era levato il vento, e la scuoteva, come avrebbe scosso un albero, facendone cadere i boccioli e le foglie, e portandone via la bellezza. Era ciò che stava succedendo a Elathuria. Stava perdendo il proprio essere, lì davanti agli occhi di lui. Fu terribile.»

Malingo colse il nodo nella gola di Finnegan e alzando lo sguardo vide le lacrime bagnargli le guance.

«Elathuria era ancora abbastanza forte da parlare a Numa. "Cercami là dove viene il vento" disse, con voce sempre più sommessa. "Io crescerò di nuovo dal seme che verrà portato via di qui."

«Numa naturalmente fu felice di saperlo, ma la sua mente era piena di domande e dubbi.

«"Sarai davvero tu?" le disse.

«"Sì" lei rispose. "Sarò io in ogni dettaglio. Tranne uno."

«"E quale?" le chiese Numa.

«"Non mi ricorderò di te" rispose lei.

«E mentre pronunciava queste parole, uno sbuffo di aspro vento si levò e la scosse con violenza, così che fu completamente dissolta...»

«No!» disse Malingo. «Era morta?»

«Be'... sì e no. Il vento aveva sparso i semi in un ampio raggio, ma Numa era deciso a trovare qualche traccia di lei - qualunque traccia - così cercò come un pazzo, e non ebbe tregua finché la sua ricerca fu ricompensata.

«Infine, dopo un lungo tempo di ricerche, la trovò, piantata in un nuovo posto. Stava ancora crescendo, ma lui la riconobbe all'istante, e s'innamorò di nuovo di lei, come la prima volta.»

«E lei di lui?»

«Sì, certo.»

«Anche se non lo ricordava?»

«Sì. Era sempre la stessa anima, dopotutto. E così lui...»

Malingo cominciava a capire il significato del racconto. Non era un caso che fosse Finnegan a riferirlo; dopotutto si trovava lì sull'isola perché aveva perduto l'amore della sua vita. Era solo logico che quella leggenda avesse colpito la sua immaginazione come evidentemente era successo.

«Così la storia si ripeté?» disse Malingo.

«Proprio così. Non una volta sola, ma più e più volte. Anche se Numa Child giurava devozione imperitura a Elafhuria, l'ora passava sempre, e il vento veniva sempre, e lei veniva portata via in un posto nuovo. Qualche volta lui la ritrovava in fretta. Qualche volta no.»

«E così credi davvero che siano ancora là fuori, ad amarsi ed essere separati, e che lui la ritrovi solo perché finiscano separati di nuovo?»

«Sì. Lo credo» disse Finnegan.

«Che modo terribile di vivere.»

Finnegan rifletté per un istante. «L'amore fa le sue richieste, e tu ascolti. Non puoi mercanteggiare con lui. Non puoi combatterlo. Non se è vero amore.»

«Stai ancora parlando di Numa Child ed Elathuria?» chiese Malingo.

Finnegan lo guardò. «Sto parlando di tutti gli amanti» disse.

«Ah» disse Malingo. «Capisco. Questo è il tuo modo di dirmi che non ti unirai a noi nel nostro viaggio.»

«No, no. Tu mi fraintendi. È il mio modo di dirti che lo farò. Ma devo tornare qui a Per Ora quando la nostra opera sarà compiuta.»

«Per uccidere i draghi rimasti?»

«Per continuare a cercare» disse Finnegan. «Fermiamoci qui, d'accordo? Solo per continuare a cercare.»

 

41

Un'evocazione ambiziosa

 

«Dobbiamo andare!» disse Tria quando Malingo e Finnegan furono rientrati.

«Che fretta c'è?»

«Ha avuto una visione!» esclamò Deaux-Deaux.

«È stato impressionante» osservò John Sonnecchio.

«Una delle donne della Fantomaya» disse Geneva. «La vecchia, Diamanda. È morta, Malingo.»

«Per mano di chi?» chiese Malingo, cupo. «Non è che la guerra è già cominciata, vero?»

«No, no. A quanto pare era accorsa in aiuto di Candy Quackenbush ed è stata uccisa da una delle Bestie di Efreet. Non è stata una bella morte.»

«Così lei vuole che noi uccidiamo la bestia che ha ucciso lei?» disse Finnegan, la sete di sangue riaccesa.

«No!» disse Tria, con più agitazione della voce di quanto chiunque avesse colto prima. «Non si tratta di vendicare Diamanda. È Candy che dobbiamo salvare. È nella Casa dell'Uomo Morto, a Efreet.»

«Che cosa ci fa laggiù?» chiese John Dispitto.

«Il Sire della Mezzanotte l'ha portata là» riferì Tria.

«A far da trappola?» chiese Dispitto.

«Sì.»

«E la Quackenbush, naturalmente, ci è caduta dentro» disse John Serpente.

«Come faceva a sapere?» disse John Dubbio.

Serpente gemette. «Perché qualcuno deve sempre difenderla? Ve lo dico io, quella ragazza porta guai. È stata un guaio fin dall'inizio, e lo sarà...»

«Taci!» disse Tria. Il volume della voce, per non parlare dell'insolita veemenza del tono, zittì Serpente all'istante.

«Sì» disse Malingo un po' più piano. «Be', l'hai detto tu. Ora dobbiamo fare qualcosa per far uscire Candy dalla Casa dell'Uomo Morto prima che Carrion...» Scosse il capo, incapace di dar voce al peggio.

«C'è molta strada da qui alla nave» disse Deaux-Deaux, tetro.

«E quando ci arriveremo, dovremo pensare a una rotta...» disse McBean.

«Pregare per un vento a favore...» disse Tom.

«Non c'è tempo per le navi!» disse Malingo.

«Che cos'hai in mente?» chiese Geneva.

Ci fu un breve silenzio nel quale Malingo gettò dolcemente due parole.

«Un glifo.»

L'effetto a catena si allargò per la stanza, deponendo su ogni viso la sua combinazione di dubbio, confusione e un breve alito di speranza.

«E dove lo prendiamo, un così improbabile mezzo di trasporto?» chiese John Dispitto a Malingo.

«Ci vuole la magia, di sicuro» disse McBean.

«Una grande magia» disse Geneva.

«Ma si può fare» disse Malingo. Poi, dando prova di una sicurezza che non provava di preciso, aggiunse: «Io posso farlo.»

«Tu puoi?» disse Geneva.

«L'ho già fatto. Solo una volta.»

«E il glifo ha volato?» chiese Finnegan.

«Sì. Ha volato. Naturalmente era solo un modello a due posti. Questo dovrebbe essere molto più grosso.»

«Daremo una mano» disse Tria. «Possiamo lavorare tutti insieme.»

«Credo che sia la nostra unica scelta» disse Finnegan. «Se recuperare la ragazza è una faccenda così urgente, allora la nave non ci porterà laggiù in tempo.»

«Bene, allora» disse Tom. «Dovremmo cominciare.»

«Prima dobbiamo liberare uno spazio fuori» disse Malingo.

Essendo quello Per Ora, naturalmente, c'era vegetazione ovunque. Ma Tom ben presto prese la guida della squadra e organizzò il disboscamento di un'area di terreno larga una ventina di metri. Fu un lavoro difficile e bollente nell'eterno Pomeriggio di Per Ora, ma lo portarono a termine in fretta, e Finnegan e Tom faticarono con particolare foga.

Malingo, nel frattempo, si spostò a breve distanza dalla radura e rifletté sul compito che stava per intraprendere. Quando tornò, John Dispitto disse: «Come funziona sul serio questa evocazione? Ho visto qualche opera di grande magia ai miei tempi, ma non ho mai capito fino in fondo il principio.»

«Nemmeno io» ammise Malingo. «È un incantesimo che ho letto per la prima volta in uno dei libri di Kaspar Wolfswinkel.»

«Così se qualcosa va storto...»

«Dobbiamo solo pregare che non accada.»

Il suolo era stato ripulito, e tutti erano in attesa, cercando di non guardare Malingo (be', forse lo guardavano, ma con la coda dell'occhio) e chiedendosi quando avrebbe cominciato l'evocazione. Quanto a lui, saltellava da un piede all'altro come se dovesse andare in bagno.

«Stai bene?» disse Deaux-Deaux.

«Sì... sono solo un po' nervoso, ecco tutto.»

«Andrai benissimo» lo rassicurò il Saltamare. «Ci siamo dentro insieme, giusto?»

«Giusto.»

«Però dovremmo cominciare, amico mio. Il tempo passa.»

Malingo annuì. «Lo so. Lo so» disse. «Mi stavo solo scaldando.» Col braccio si asciugò dalla fronte le goccioline di sudore dorato di rattopardo e si mise al centro del terreno ripulito.

«Avrò bisogno di tutta la vostra concentrazione» disse. «Dobbiamo agire come una sola mente. E tirare insieme.»

«Fare che cosa?» disse John Dubbio.

«C'è una formula di evocazione che io comincerò a recitare. Voglio che tutti si uniscano a me.»

«E questo aiuta l'evocazione?» chiese Dispitto.

«No, è solo che mi imbarazza farlo da solo» disse Malingo con un gran sorriso. «Sì, Dispitto, sarebbe di enorme aiuto. Quando comincio a girare intorno e a gettare l'aria...»

«A fare che cosa?» chiese Tom.

«Vedrete» disse Malingo. «Dovete solo seguirmi e copiare quello che faccio. Ora, tutti si dispongano in una specie di cerchio. Così. Non c'è niente di cui preoccuparsi. Se l'evocazione non funziona, non otterremo un glifo, tutto qui.»

«E Candy resterà laggiù alla tenera mercé di Christopher Carrion...» disse Dispitto. «No.» Guardò con intensità da una persona all'altra finché non ebbe completato il cerchio. «Deve funzionare.»

«Facciamolo» disse Malingo, e chiuse gli occhi. Nella mente rivide la scena a Ninnyhammer, quando lui e Candy avevano compiuto il rituale insieme. Era meravigliosamente chiara nella sua testa. Trasse un respiro profondo, levò le mani sopra la testa e le batté tre volte.

Poi prese a recitare le parole dell'incantesimo.

 

«Ithni asme ata,

Ithni manamee,

Drutha lotacata,

Vieni, glifo, a me.

Ithni, ithni,

Asme, ata:

Vieni, glifo, a me.»

 

Le sillabe gli affiorarono con facilità alle labbra, e quando ne ebbe stabilito il ritmo, aprì gli occhi e prese a camminare in cerchio afferrando l'aria che c'era fuori e gettandola dentro.

«Ah» mormorò Tom Due Pollici. «Allora questo è gettare l'aria.»

Geneva fu la prima a unirsi a quanto Malingo stava facendo: aggiunse la sua voce potente a quella del rattopardo. Poi, uno per uno, anche gli altri si unirono al rituale e aggiunsero le voci e i gesti all'evocazione: camminavano tutti in cerchio, recitando le parole e afferrando l'aria.

«Quando sapremo se funziona o no?» sussurrò McBean a Dispitto tra la quarta e la quinta ripetizione.

«Oh, credo che lo capiremo» rispose Dispitto.

Non aveva finito di dirlo che alcune scintille scoccarono tra loro, intense di colore, anche nella luminosità del pieno pomeriggio. Non erano solo rosse e blu, come la prima volta che Malingo aveva compiuto il rituale. Erano anche viola e giallo verdi e d'oro. S'intrecciarono come lucciole in delirio, lasciando strisce di colore dietro di sé mentre acceleravano.

«Sì!» esclamò Malingo. «Sta succedendo. Non smettete, tutti quanti. Procedete nel rito.»

La bellezza dello spettacolo diede sicurezza ai maghi novizi. Le loro voci si fecero più robuste, la presa dell'aria più ritmata. E a turno, via via che la fiducia cresceva, crebbe l'effetto. La danza di luce diventò più ambiziosa, i colori presero a intrecciare una forma complicata nell'aria di Per Ora. Malingo emise un grido di piacere nel vedere che il suo desiderio di un secondo glifo stava per realizzarsi. Riusciva già a distinguere l'immensa curva della sua prua, e la curva all'indietro della cabina.

E ancora le lucciole aumentarono, e la loro danza elegante si fece più complicata, così che tutti nel cerchio dei fattucchieri (perfino John Serpente, così risolutamente impassibile) esibirono espressioni di piacere nel vedere la parola farsi fatto davanti a loro.

«Ora possiamo smettere» disse Malingo a un certo punto. «Finirà da solo.»

I novizi si ritrassero e guardarono con enorme gioia il glifo fare come Malingo aveva annunciato. I punti di luce a quel che pareva sapevano che cosa fare da lì in poi, e s'intessevano in un telaio invisibile, avanti e indietro e intorno e intorno, finché il veicolo scintillante non fu lì, completo, brillante nel sole del pomeriggio e appena fumante per il calore della sua venuta al mondo.

«Una volta ho sognato questo...» disse Finnegan tra sé fissando il veicolo con aria stupefatta. «Molto tempo fa... ho sognato che calava da un'altra galassia.»

«Dovremmo andare» disse Tria.

«Sicuro» intervenne Malingo. «Candy ha bisogno di noi.»

«Qualcuno ha una mappa?» chiese McBean.

«Ho una vecchia copia dell'Almanacco»si fece avanti Tom.

«Non abbiamo bisogno di una mappa, a dir la verità» disse Malingo. «Il glifo prenderà la direzione dai nostri pensieri.»

«Bell'opera» osservò Deaux-Deaux.

«Davvero» disse Geneva. «Stupefacente.»

Aprì la portiera e chinò il capo per entrare. Non era facilmente impressionabile, ma la lucentezza iridescente del glifo, creato con aria e sillabe, la fece sorridere. «Congratulazioni, Malingo» disse. «È una bella cosa.» Entrò, e gli altri ben presto la seguirono.

«Non congratularti troppo presto» replicò Malingo, cauto. «Non l'abbiamo ancora fatto volare.»

Ma c'erano pochi dubbi sul fatto che il glifo fosse pronto a compiere il suo dovere. Era visibilmente eccitato alla prospettiva del suo volo inaugurale. Migliaia di minuscoli punti di energia baluginavano nella sua sagoma, a partire dal muso: si levavano nel suo scheletro in banchi di particelle scintillanti, che poi si riunivano all'altro capo del glifo, in quello che doveva essere il motore: una palla di luce e forza, in costante, caotico movimento. Mentre tutti salivano nel veicolo, il motore acquistò potenza. Faceva un rumore come un coro di parecchie migliaia di persone che sussurrassero insieme una poesia in un linguaggio segreto. Il glifo vibrò appena. Le porte si chiusero con un dolce sospiro.

«Siamo pronti?» disse Malingo.

«No!» disse John Dispitto. «Non mi piace questo coso!» Cominciò a strattonare la portiera. «Ci ucciderà tutti!»

«Calmati!» disse Deaux-Deaux. «Siamo al sicuro.»

«No che non lo siamo! Non lo siamo! Voglio scendere!»

«Be', io no» disse John Dubbio.

«Nemmeno io» disse John Filetto.

In due secondi scoppiò una caotica discussione, con tutti i John che esprimevano la loro opinione allo stesso tempo.

«È troppo tardi per scendere» urlò Geneva al di sopra del fragore delle voci irate. «Ci stiamo muovendo!»

«Ha ragione!» disse Tom. «Siamo decollati!»

«Reggetevi!» strillò Malingo.

Prima che potesse finire di parlare, il veicolo si levò diritto nell'aria.

«Yowza!» urlò John Dubbio.

«Vi avverto tutti quanti» disse John Serpente. «Io vomiterò!»

Il glifo si fermò a dieci metri dal suolo e prese a roteare: prima puntò il muso al Mezzogiorno, poi verso la Venticinquesima Ora, poi alla Mezzanotte.

Intanto John Dispitto aprì la portiera e Serpente tenne fede alla promessa.

«Attento, ragazzo...» disse McBean, con la cautela di un capitano. «Che vada piano.»

«Non ho più il controllo su di lui» disse Malingo. «Credo che senta quanto siamo impazienti. Vuole portarci là! A doppia velocità!»

«Be', allora andiamo!» disse Finnegan, e si alzò per scrutare fuori dal finestrino davanti. «All'improvviso non vedo l'ora di affrontare Carrion!» Si rivolse a Malingo. «Questa macchina mi sente, rattopardo?»

Malingo non dovette rispondere. Lo fece il glifo. Tutta la sua struttura all'improvviso ribollì di onde larvali di iridescenza.

«Ecco!» disse Deaux-Deaux.

Con questo, il glifo decollò verso Efreet, lasciando il cielo sopra Per Ora a una tale velocità da provocare un monsone spontaneo nell'aria sopra lo spazio in cui si era creato, che riempì il suolo che avevano faticato per sgombrare di una vaporosa piccola giungla di nuovi uccelli e boccioli.

 

42

L'alto labirinto

 

Di tutti gli spaventi e le meraviglie dei suoi viaggi ad Abarat, certo quell'incontro sulle scale strette fu il più strano! In piedi sui gradini sotto di lei c'era il Sire della Mezzanotte, il terrore delle isole. Aveva sentito parlare di lui come se fosse il Diavolo incarnato in persona. Ma al momento non ne era così sicura. Era brutto, certo, e anche pericoloso. Ma c'era anche qualcosa di penoso in lui. Non dubitava che dietro quel suo volto sfigurato ci fossero sofferenza e dolore.

Lui la guardò dal basso, gli occhi svuotati di colore. «Naturalmente sai che devo ucciderti in questa casa» disse. «Mia nonna è convinta che tu sia una forza devastatrice ad Abarat. È convinta che se non verrai fermata farai sì che i nostri piani siano... disturbati.»

«Tua nonna non mi ha nemmeno mai conosciuto.»

«Oh. Stai insinuando che se succedesse, cambierebbe opinione?»

«Guardami» disse Candy. «Non sono un pericolo per te, o per qualcuno. Sono solo una ragazza di Chickentown che si è persa qui per caso.»

«C'è qualcosa che avvenga davvero per caso?» disse Carrion.

«Sicuro. Accadono di continuo cose che...» Stava per dire "cose che non dovrebbero succedere" ma sul punto di dirlo capì che non credeva più fino in fondo che fosse vero. Le sue parole si smarrirono.

«Finisci di dire quello che pensi.»

«Non importa.»

«Be', se è di qualche conforto, sono perduto anch'io. Perduto e solo.»

«E tua nonna?»

«Non mi è di gran consolazione» disse lui, con un sorrisetto. «Né io lo sono per lei, immagino. Anche se siamo gli ultimi della famiglia; uno penserebbe che abbiamo imparato a prendere il conforto ovunque ce ne sia.» Tacque per parecchi istanti, mentre le creature nel suo collo rallentavano, come per assecondare il suo umore malinconico. «Ma no» disse infine. «Ho cercato e cercato qualcuno che mi capisse. Solo un po'. Ecco tutto. Solo qualcuno che mi capisse un po'. La Notte è molto scura, a volte. E a Gorgossium naturalmente è infinita.»

La pena nella sua voce e nell'espressione era solo finzione?, si chiese Candy. In qualche modo, credeva di no. La creatura lì sulle scale stava confessando qualcosa di vero. Ma perché? Le parole che seguirono furono la risposta.

«Forse tu capiresti...»

«Io?»

«Hai detto che ti sei persa. Forse abbiamo in comune più di quanto possa sembrare.»

Voleva dirgli che era pazzo; che non c'era nessuno in questo mondo o nell'Altromondo con cui potesse immaginare di avere meno in comune. Ma si tenne i suoi pensieri per sé. Era più sicuro, così. Invece cercò di far tornare la conversazione all'argomento Mater Motley.

«Credevo che avessi detto che tua nonna mi vuole morta.»

«Le farò cambiare idea» disse lui, sicuro di sé. «Le dimostrerò che non abbiamo nulla da temere da te. Che ci capiamo.»

Era strano sentire il Sire della Mezzanotte parlare di lei, e non di lui, come quella di cui si poteva aver paura.

«Sembri perplessa» disse Carrion.

«Sì... be', lo sono, suppongo» ammise Candy. «È che non so che cosa tua nonna - o tu, se è per questo - veda in me. Ma qualunque cosa io debba essere... non lo sono.»

«No?» disse lui, molto piano.

Sorrise e fece per prenderle la mano. Senza alcun dubbio era un gesto del tutto innocente, ma c'era qualcosa nel modo in cui il sorriso faceva apparire il suo volto - come un teschio che ghigna marcendo - che indusse Candy a ritrarre la mano, così che lui non la potesse afferrare.

La risposta di lui al diniego fu istantanea, e spaventosa.

Gli incubi che si erano acquietati nel collare all'improvviso si fecero ardenti come fulmini, e lui avanzò verso di lei in fretta. Questa volta Candy non fu abbastanza rapida da evitarlo. Le dita di lui s'intrecciarono con le sue. E in quell'istante, tutto cambiò.

Gli orrori che aveva creduto di intravvedere quando lui si stava spogliando del viso di Pius Masper (e che si era convinta di non aver visto) apparvero in tutta la loro gloria repellente attorno a lei. Una processione di mostruosità - tutte sogghignanti, sogguardanti, sbalordite - sorse tutto attorno nell'attimo in cui Carrion intrecciò le proprie dita con le sue; era come se il Diavolo avesse sguinzagliato ogni bestia dalle tane dell'inferno e le avesse messe a danzare attorno a lei.

«No!» urlò Candy, e radunando più forze di quelle che credeva di possedere, liberò la mano.

Per un terribile istante parve che la loro separazione non l'avrebbe liberata dalla danza infernale, e le creature continuarono a balzare e far capriole attorno a lei. Poi il disgustoso spettacolo prese ad affievolirsi come un fuoco d'artificio morente, e infine si spense.

Era di nuovo in piedi sulle scale, come se nulla fosse successo.

Ma sicuro che era successo.

Ora sapeva la verità. Le era stata appena accordata una fugace visione del vero Christopher Carrion. Non con lo sguardo, ma con la mente.

Carrion sapeva benissimo che cosa era successo. Il suo inganno era stato smascherato; il marcio nella sua anima era stato esibito a Candy in tutti i suoi sordidi dettagli.

«Io... mi... vergogno» disse.

«Sì...» ribatté Candy, arretrando lentamente. «Non ti biasimo. Mi sentirei parecchio male anch'io, se fosse quello il mio vero aspetto.»

Lui aveva un'ultima manovra da tentare.

«È terribile» disse. «Vivere con questa... questa... grotteschitudine dentro di me. Finché non ti ho visto, aveva rinunciato alla speranza di essere mai guarito. Ma forse tu puoi aiutarmi a cambiare.»

A Candy non ci volle molto per mettere insieme una risposta.

«Mi dispiace per quella cosa, com'è che l'hai definita...»

«Grotteschitudine.»

«Sì, quella. Ma non posso aiutarti.» Cercò di esprimersi nel tono più ragionevole possibile, e intanto si ritrasse lentamente da lui, timorosa che all'improvviso le si avventasse addosso, all'improvviso l'afferrasse di nuovo, e che la parata tornasse a invaderle la mente. Non poteva sopportarlo. Non di nuovo. Dietro di lei, tuttavia, c'era una porta chiusa. Quella casa sembrava possederne così tante. Aveva la schiena contro una porta chiusa quando aveva cercato di entrare, ed eccone un'altra adesso che voleva uscire.

«Ascoltami, Candy» disse Carrion, tutto consolazione e ragionevolezza. «So di che cos'hai paura. E giuro, giuro che non vedrai mai più ciò che hai visto qualche momento fa. È stato imperdonabile. Eppure - sapendo che è stato imperdonabile - ti chiedo lo stesso di perdonarmi. Puoi farlo? No, lo so che puoi. La domanda è: lo farai?»

Lei non gli rispose. Si voltò e spinse la spalla contro la porta. La serratura era arrugginita, ma il legno attorno era scuro di marciume, e ciò le diede la tenue speranza di potergli ancora sfuggire.

«Che cosa fai?» le chiese lui, come se sinceramente non lo sapesse.

Candy non sprecò fiato a rispondere. Invece si scagliò contro la porta. Si udì uno schianto mentre il legno consunto attorno al chiavistello cominciava a cedere.

«Rifletti, ti prego» sussurrò Carrion. «Anche se apri quella porta, non puoi andare da nessuna parte. C'è solo neve là fuori. Morirai congelata in pochi minuti.»

«Ci sono cose peggiori» disse Candy. Poi, con un ultimo strattone, spalancò la porta. Il vento schiaffò una parete pungente di schegge di ghiaccio e neve contro il suo viso.

Si voltò a guardare il Sire della Mezzanotte un'ultima volta, abbastanza da incrociare il suo sguardo disperato. Pareva che stesse per dirle qualcosa, per fare un ultimo appello, ma lei non gliene diede l'occasione. Strizzando gli occhi contro la bufera gelata, uscì sul tetto e sbatté la porta, anche se naturalmente sapeva che non avrebbe impedito a Carrion di seguirla per più di dieci secondi.

Anche meno.

Appena un istante dopo, la porta venne spalancata con una spinta, e la luce sudicia che pulsava dagli incubi di Carrion si riversò sulla neve, cogliendola nella sua macchia vivida.

«Candy!» le urlò. «Basta con questa follia! Cadrai e ti spezzerai il collo!»

Guardò avanti. Il ripido tetto a due falde era scivoloso per la neve umida. Non c'era una facile via d'uscita.

«Torna qui» disse Carrion. «Non ti farò del male. Sulla mia vita, Candy! Non ti farei mai del male. Non capisci che sei la mia salvezza? Non capisci? La mia salvezza.»

Candy ignorò le sue contraddizioni e continuò a salire nel candore. Più si allontanava dalla porta, più la neve diventava spessa. Ben presto le raggiunse le caviglie. E a parte la macchia di luce degli incubi, che s'illuminava e si attenuava in base a quanto Candy riusciva a precedere il suo inseguitore, non c'era illuminazione che la guidasse su per l'insidioso labirinto di pietre e gargoyle e grondaie: ma che scelta aveva? Se si fosse fermata per un attimo, lui l'avrebbe raggiunta. Doveva muoversi, rischiando la vita a ogni passo cieco.

Carrion continuava a chiamarla, naturalmente; continuava a cercare di riportarla indietro. Aveva smesso di parlare di salvezza. Si era concentrato sulle minacce pure e semplici.

«Vuoi che ti lasci qui fuori?» le gridò. «C'è un altro fronte di tempesta che avanza da nord-ovest. La neve sarà alta tre metri tra un'ora o due. E tu finirai sepolta, piccola e blu e morta. È così che vuoi che finisca la tua vita, Candy? Tu, che avresti potuto essere così tanto?»

E ancora lei non gli rispose. Non gli voleva dare la soddisfazione di voltarsi a guardarlo. Nulla di ciò che lui poteva dire - le minacce, le adulazioni, l'appello ai sentimenti - sarebbe riuscito a cancellarle dalla mente le immagini che aveva contemplato della sua vera natura. Per quanto la sua conversazione potesse essere civile, era un mostro nel profondo dell'anima.

Così continuò a correre. Il tetto era come un enorme labirinto, si levava oscuro contro il cielo da una parte e dall'altra, e i passaggi tra le due ali zigzagavano follemente. A ogni svolta lei s'imbatteva in uno dei gargoyle di pietra dalla forma orribile. Sembrava che la osservassero mentre li superava, come se potessero balzarle addosso da un momento all'altro. Fu quando s'imbatté nello stesso gargoyle, la bocca spalancata e irta di denti, che capì che stava correndo in cerchio.

Aveva sperato che le sue tracce le evitassero quell'errore, ma la neve cadeva così rapida che cancellava le orme.

Avrebbe pianto dalla delusione se ne avesse avuto l'energia, ma non l'aveva. Era sfinita. Le sue gambe erano insensibili per il freddo. Così le mani e il volto. Non poté far altro che continuare a barcollare in avanti, cercando una via d'uscita, con la minaccia di Carrion - finirai sotto la neve, piccola e blu e morta - che le echeggiava dentro la testa.

Uno sbuffo di vento levò una nuvola di neve stranamente illuminata, e Candy fu accecata per qualche attimo. Si tolse dagli occhi le briciole pungenti e all'improvviso... ecco Carrion! In qualche modo l'aveva sopravanzata nell'oscurità; forse l'aveva preceduta, o si era arrampicato su uno dei tetti.

«La caccia è finita» disse. «Vieni qui.» Aprì le braccia. «Guardati. Sei congelata. Ho detto vieni qui.»

Fece di nuovo per afferrarla. Lei aveva così poca forza residua che riuscì a stento a trovare il fiato per parlare. Ma da qualche parte la trovò. «Una volta... per tutte... LASCIAMI STARE!»

La sua voce echeggiò sui tetti e tornò da lei come se non fosse la sua: esile per la stanchezza e acuta di paura. La stranezza di quel rumore la salvò dalla presa di Carrion almeno per un altro istante. Lui la fissò in quel momento, come se ci fosse qualcosa dentro di lei di cui volesse impossessarsi prima di porre fine alla sua vita. In quell'istante di esitazione Candy ebbe il tempo di voltargli le spalle e guardare da dove era venuta, in cerca di un'ultima via di fuga.

C'era solo una possibilità. Alla sua sinistra c'era un ripido tetto, con una stretta scala di metallo, quasi nascosta dalla neve, appoggiata contro. Radunò gli ultimi residui di forze che le restavano nelle membra insensibili e corse inciampando verso la scala, gettando indietro una rapida occhiata a Carrion per vedere se la seguiva. Sì. Disperata, si gettò verso il tetto e afferrò i pioli di ferro. Poi - cercando di non pensare a ciò che la inseguiva, o alle possibilità che la aspettavano quando avesse raggiunto la cima del tetto - prese a salire la scala ghiacciata.

 

43

Il buio negato

 

«Mia norma aveva ragione!» urlò Carrion verso Candy intenta a salire. «Sei proprio pazza! Pazza e pericolosa! Perché rimandi l'inevitabile? Arrenditi, ragazzina. Questo non fa che aggiungere dolore a dolore. Te l'ho detto e ridetto: non c'è più nessun posto dove correre!»

Candy era a poco più di metà della scala, e da lì vide che Carrion aveva ragione: una volta in cima, non avrebbe avuto dove andare. Carrion non doveva far altro che prenderla e scatenare quell'orrenda parata di mostruosità in modo che potesse invaderle la testa.

«Mi ascolti, Candy Quackenbush?» urlò Carrion.

Candy lo guardò. Da quell'angolatura curiosa, la sua testa sembrava galleggiare in una pentola. Lui la fissò dal fluido che gli ribolliva attorno alla faccia come la portata principale di uno stufato da cannibali. La fatica, o la rabbia, o una combinazione delle due aveva trasformato il bianco dei suoi occhi in un violetto scuro. L'iride, per contrasto, era diventata quasi incolore.

«Arrenditi, ragazza» disse. «Combini solo guai ovunque tu vada. Infelicità. Sofferenza. Morte. È ora di finirla. È meglio che tu sparisca, per il bene di tutti.»

Quelle parole ferirono Candy più del vento costellato di ghiaccio. C'era troppo di vero in esse; per questo facevano così male.

A Chickentown aveva vissuto una vita noiosa ma irreprensibile. Non aveva fatto del male a coloro coi quali entrava in contatto, ma non aveva nemmeno migliorato in alcun modo la loro vita. Mentre qui ad Abarat, per qualche ragione, qualunque cosa facesse sembrava recare più significato. Ovunque fosse andata nel suo viaggio - a Yebba Dim, che si trovava alle Otto di Sera, a Ninnyhammer, nel Tempo Fuor Dal Tempo alla Venticinquesima Ora, a Babilonium, a Scoriae e perfino a Efreet - l'effetto della sua presenza aveva avuto una vera influenza sulle vite che aveva sfiorato. Non sapeva perché, ma accadevano cose nelle sue vicinanze: strane cose imprevedibili. Le regole prestabilite del mondo nel quale era arrivata venivano ribaltate.

Non era sempre disastroso. A volte aveva aiutato certe persone. Malingo, per esempio. Ma temeva che fosse solo questione di tempo prima che succedesse qualcosa di davvero tragico. Non a lei, molto probabilmente, ma a un innocente di cui aveva incrociato il cammino.

Tutto ciò le passò per la mente alla velocità del fulmine nel tempo che ci volle a Carrion per salire forse tre gradini della scala a pioli. Sarebbe riuscito a raggiungerla in pochi secondi. Decise che non poteva più salire dandogli le spalle. Muovendosi lentamente, per paura di perdere l'appoggio sui pioli ghiacciati, si girò lentamente su se stessa, in modo da poter continuare a salire con gli occhi puntati sul suo inseguitore. Se si fosse avvicinato troppo, poteva pur sempre prenderlo a calci, pensò. In effetti il suo volto appariva vulnerabile quando lui la fissò di sotto in su, nonostante tutto ciò che lei sapeva degli orrori che covavano in attesa dietro di esso. Sì, che fosse maledetto, avrebbe calciato forte, fosse l'ultima cosa che faceva.

Carrion la osservò.

«Che cosa stai pensando?» si chiese a voce alta. «Sei un mistero, ragazza.»

Mentre lui le parlava lei salì, e i suoi piedi continuavano a minacciare di scivolare sui pioli. Ma la sua cautela fu premiata. Raggiunse la cima del tetto senza incidenti, e guardò giù dall'altra parte. Era la sua ultima fragile speranza che ci fosse un modo di tornare dentro casa da quella parte del tetto. Invece no. Le notizie erano cattive, tutte cattive. C'era solo un ripido tetto ad aspettarla; e oltre il tetto, il vuoto, giù fino al suolo duro come il ghiaccio di sotto. Sarebbe stata una morte rapida, immaginò. Ma morte sarebbe stata.

«Che cosa ti avevo detto?» disse Carrion, vedendo ogni residuo barlume di speranza svanire dal volto di Candy. «Non c'è altro posto dove andare.»

Si protese verso di lei. «Vieni. Farò in modo che sia rapido. Lo prometto.»

«Aspetta...»

«Cosa?»

«E se...»

«Che cosa?»

«E se io promettessi di andarmene?»

«Andare dove?»

«A casa» disse lei. «Di nuovo nell'Altromondo.»

«Adesso si mercanteggia?»

«Tu non vuoi uccidermi.»

«Come fai a sapere quello che voglio?»

«Non so come lo so, ma lo so. Forse hai ragione. Forse in qualche modo noi ci capiamo. So che non vuoi uccidermi, qualunque cosa dica Mater Motley. Non lo vuoi, in tutta coscienza.»

«Ha! Ma sentitela! Io sono un Carrion, ragazza. Io non ho una coscienza.»

«Non ti credo» ribatté Candy con ferma risolutezza.

«Be', allora lascia che te lo dimostri» disse Carrion, il volto così corrucciato per la ridda di emozioni contrastanti che Candy non riuscì a decifrarne l'espressione.

Prese a salire la scala dietro di lei, ma in quel momento uno sbuffo di vento spazzò il tetto alle sue spalle, raccogliendo un nugolo di schegge di ghiaccio. Volarono in faccia a Candy, che per un istante fu accecata. Fece mulinare le braccia, tentando di restare in equilibrio, ma la scala era troppo scivolosa sotto i suoi piedi. Perse la presa e cominciò a cadere all'indietro. Per pochissimi secondi quasi riuscì a riguadagnare l'equilibrio, ma fu una breve sospensione. Il tacco sinistro scivolò oltre la cima del tetto, e lei cadde all'indietro.

Per un lungo spaventoso istante precipitò, senza distinguere il cielo dalla terra. Poi colpì il tetto, a faccia in su. Il tonfo le tolse il fiato, e lei cominciò a scivolare giù per le tegole, la testa avanti. Da qualche parte in alto sopra di lei credette di vedere qualcosa passare tra le nubi gonfie di neve: una forma luminosa che apparve per meno di un attimo e poi fu di nuovo oscurata; il suo andare e venire fu così rapido che non era nemmeno del tutto sicura di averla vista davvero.

Era la luna? No, la luna non si muoveva così in fretta...

Un istante dopo colpì un tubo di scarico che era stato sistemato sul tetto, e l'impatto la fece ruotare. Il suo corpo si muoveva più rapido della mente. Senza neppure pensarci, si protese e afferrò il tubo. Scricchiolò, ma non cedette. Rimase appesa per parecchi secondi, cercando disperatamente di riprendere fiato. Era difficile, stare così distesa sul tetto, appesa per aver salva la vita. E poi, come se non ci fossero abbastanza cose a turbarla, udì un rumore dietro e sopra di sé, guardò in alto e vide che Carrion si era arrampicato su per la scala fino alla sommità del tetto ed era lì in piedi, a braccia aperte, come per accogliere la tempesta in tutta la sua furia assassina.

«Che vista!» disse. «Il cielo. Tu. L'abisso.» Si accoccolò e rimase in equilibrio sulla cima del tetto con inquietante disinvoltura. Poi si protese verso di lei.

«Ti potrei spingere da qui» disse.

 

«Là!» disse Finnegan. «Laggiù!»

«La vedo!» urlò Malingo.

Il glifo reagì all'istante ai loro pensieri. Planò dalle nubi verso il tetto della Casa dell'Uomo Morto.

«Non ce la faremo!» strillò John Broda. «Cadrà!»

«Non ce la faccio a guardare» disse John Sonnecchio. «Dispitto! Coprimi gli occhi!»

«Giù!» ordinò Finnegan al veicolo in discesa. «Giù!»

Il glifo fece subito quanto ordinato, ma calò con una tale rapidità che oltrepassò Candy.

«Su! Su!» Finnegan ormai urlava. Picchiò il pugno contro il soffitto della cabina. «Dannata macchina!»

Il glifo risalì dondolando. I viaggiatori furono scaraventati intorno, sbatacchiati da una parte all'altra del veicolo, ma nessuno si lamentò, nemmeno John Serpente. Erano tutti concentrati sulla visione che ora era chiarissima: Candy appesa per la punta delle dita alla grondaia.

Finnegan aprì il tetto del veicolo per essere pronto ad afferrare Candy non appena fosse stata a tiro. Deaux-Deaux fece qualcosa di più: si arrampicò su Finnegan e si mise in piedi sul tetto. Era imperturbato dal movimento del glifo. Dopotutto era un Saltamare; era abituato a camminare sulla cresta delle onde. Stava in equilibrio sul glifo oscillante come un surfista su una tavola inclinata.

«Candy!» urlò. Lei azzardò una rapida occhiata alle sue spalle. Riuscì perfino a sorridere.

«Devi mollare, signora!» disse Finnegan.

«Cadrò!»

«Saremo qui a prenderti!»

«Fidati di noi!» urlarono i fratelli John.

Candy guardò Carrion un'ultima volta. "Qualunque cosa succeda" pensò, "spero di non rivedere mai più la sua faccia."

Poi lasciò andare la grondaia.

«Prendimi!» urlò Deaux-Deaux a Finnegan, poi si gettò in avanti, afferrandole la mano. Fu un atto di pura fiducia. Se Finnegan non fosse stato abbastanza rapido da acchiappare la mano e il piede di Deaux-Deaux, sia Candy che il Saltamare sarebbero caduti e sarebbero morti. Per alcuni perigliosi istanti si aggrapparono l'uno all'altra mentre il glifo ondeggiava e oscillava.

Nel frattempo, sul tetto, Carrion indicava il glifo, borbottando qualcosa. Malingo emise un basso gemito, ma nessuno lo sentì nella confusione del momento.

«Dammi una mano qui!» urlò il Capitano a Tom, e insieme issarono di nuovo Finnegan nel glifo, mentre Geneva aiutava Deaux-Deaux e Candy. Ci furono alcuni momenti sospesi di risate e sollievo. Poi Maiingo gemette di nuovo, le mani gli salirono al volto, e un attimo dopo il glifo impazzì, scagliandosi da un lato all'altro con incredibile violenza.

«Chiudete il portello!» urlò McBean. «Prima che qualcuno cada fuori!»

Finnegan chiuse violentemente la botola, e appena in tempo. Il glifo si ribaltò una e un'altra volta; e ancora, riducendo tutti gli occupanti a una confusione nauseata e ammaccata.

«Che cosa succede?» urlò Dispitto a Maiingo. «Non puoi fermarlo?» Riuscì a mantenere lo sguardo puntato sul rattopardo abbastanza a lungo da capire la ragione del problema. «Maiingo ha l'aria di stare proprio male» urlò.

Geneva prese Maiingo per un braccio. Era rigido, gli occhi vitrei.

«È Carrion» disse Tria. «Ha posto Maiingo sotto il suo controllo.»

Maiingo era chiaramente impegnato a tentare di opporsi alla presa di Carrion, ma questo gli provocava dolore. Aveva i denti serrati, e un filo di sangue gli colava da ciascuna narice.

Il glifo intraprese una serie di manovre suicide, gettandosi a capofitto e vorticando e rivoltandosi come un piatto tra le mani di un giocoliere folle. Dentro, ciascuno si reggeva meglio che poteva mentre il veicolo si allontanava dalla casa, strappando rami mentre filava tra gli alberi. Sul tetto di sotto, Carrion seguiva il suo percorso caotico con le mani tese. Chiaramente lo controllava ancora. E non c'era dubbio alcuno sulle sue intenzioni. Alzò sempre di più le mani, ordinando al glifo di salire e salire, finché quello fu forse a settanta metri dal suolo. Lì, per alcuni tormentosi secondi, lo lasciò appeso, dando a tutti i passeggeri il tempo di temere il peggio.

Poi accadde. Carrion lasciò cadere le mani, e il glifo obbedì alle sue istruzioni. Precipitò dal cielo come un sasso.

«Oh, santi numi...» mormorò John Dispitto.

Mentre cadevano, Candy passò le braccia attorno al rattopardo da dietro e si aggrappò a lui.

«Malingo» disse. «Sono io.»

Non lo vedeva in faccia, ma Geneva sì, e la sua espressione era cupa.

«Devi combatterlo» disse Candy.

Guardò Geneva, che scosse il capo. «Combatti contro di lui, ti prego» disse. «Per me. Per tutti noi!»

Finalmente Malingo parve udirla. La sua testa si voltò pigramente.

«Candy...?» disse.

«Sì!» disse lei, e gli sorrise. In quell'istante il glifo urtò le cime dei rami e si piegò di lato; la discesa fu rallentata dall'impatto. Nessuno ebbe il tempo di dargli nuovi ordini. Il veicolo colpì il suolo, fracassandosi in una nube di neve, e continuò a correre per altre trenta o quaranta metri. A ogni metro rallentava, e infine si fermò sussultando, il muso incastrato tra le radici estese di un albero.

Passarono parecchi secondi, pieni solo di sospiri e grugniti e gemiti. Infine tutti i fratelli John parlarono a un tempo: «Siete tutti vivi?»

Da tutti gli angoli si levò un coro di sì.

«Candy?» disse Dispitto.

«Sì. Sono viva!»

La sua risposta fu seguita da un'esplosione di gioioso benvenuto da Dispitto e dai suoi fratelli, perfino da John Serpente.

«Viva! Viva! Candy è viva!»

«Abbracciaci!»

«Più forte!»

«Più forte!»

«Oh, ci sei mancata!»

«Voi siete mancati a me! Tutti voi! Grazie mille a tutti per avermi tirato fuori di là!» Candy rivolse la sua attenzione a Malingo, che era ancora seduto al posto del pilota. «Come va?»

I ventagli di cuoio ai due lati della sua testa erano dilatati e tremanti. «Sto bene...» disse «... credo. Mi dispiace. Mi ha dominato, e non sono riuscito a togliermelo di dosso.»

«Era nella tua testa?» chiese Geneva.

«Sì» rispose Malingo. «È stato orribile.»

Perché, si chiese Candy, Carrion non aveva cercato di fare la stessa cosa a lei? Certo avrebbe posto rapidamente fine all'inseguimento se le avesse semplicemente ordinato di arrendersi. Ma forse aveva tentato, e non c'era riuscito. Forse la sua mente umana presentava una sfida diversa per lui rispetto a quella del rattopardo.

«Uh-oh» disse John Filetto. «Carrion non ha ancora finito con noi.»

Candy guardò in su.

«Là» disse Geneva.

Indicò un punto attraverso il finestrino crepato sul retro del glifo. La porta d'ingresso finemente intagliata della Casa dell'Uomo Morto era aperta, e sulla soglia avanzava il Sire della Mezzanotte. Aveva indossato un enorme cappotto nero di liscia pelliccia. Le teste mummificate degli animali che avevano fornito le loro pelli per quell'indumento erano disposte a formare un collo (guardavano tutti in su verso di lui, in cieca adorazione). Nella mano sinistra reggeva un bastone grosso la metà di lui, e sulla sua cima stavano rannicchiati i resti scheletrici di un enorme rospo alato. Una luce ardeva nelle sue orbite e gettava un brillio demoniaco nell'aria densa di neve.

«Ecco un uomo con l'assassinio in mente» disse Finnegan, molto piano.

«Chi è il moccioso in divisa dietro di lui?» chiese Dispitto.

«Si chiama Letheo» disse Candy.

L'ultima volta che aveva visto Letheo, era stato scaraventato attraverso una finestra dal suo padrone furibondo. Ma a quel che pareva i tradimenti contro Carrion gli erano stati perdonati, perché era di nuovo nell'ombra della Mezzanotte.

«Lo conosci?» chiese Tom.

«È quello che mi ha portato qui. Carrion lo tiene in pugno.»

«Be', Carrion ha l'aria di chi cerca lite» disse Finnegan, sfilando la corta spada dal fodero. «Accontentiamolo.»

«Ha intenzione di ucciderci, Finnegan» disse Geneva.

«Deve solo provarci.»

«Questo non è il tempo o il luogo» ribatté Geneva.

«Ha ragione» disse Candy.

«Be', che cosa suggerisci?» disse Finnegan, rivolgendosi a Candy con la furia negli occhi. «Che scappiamo via? No, io non ho paura di lui.»

«Nemmeno io» disse Tom Due Pollici, arrotolandosi le maniche come se avesse in mente un giro di boxe a mani nude.

«Nemmeno io» disse Deaux-Deaux. «Solo perché è il Re delle Ore Oscure o come diavolo si fa chiamare di questi tempi.» Spalancò la porta e fece per scendere dall'apparecchio. «Vuoi combattere?» urlò a Carrion.

Candy lo trattenne.

«Non farlo» urlò.

«È ora che qualcuno gli tenga testa.»

«Deaux-Deaux, per favore» lo supplicò Candy. «Diamanda è già stata uccisa qui, proprio davanti a me. Non voglio essere responsabile del ferimento di chiunque altro.»

«Candy ha ragione» disse Tria. «Questo posto sa di morte, Deaux-Deaux. Non vogliamo restare qui.»

«Non abbiamo altra scelta» disse Finnegan. «Che cosa faremo? Ci chiudiamo a chiave nel glifo sperando che Carrion vada via? Non lo farà.»

«Posso far muovere il glifo» disse Malingo, asciugandosi il sangue dal naso con il dorso della mano.

«Allora fallo!» disse Dispitto. «Ma spicciati.»

In effetti, Carrion non aveva una gran fretta. Sembrava convinto - e perché no? - di averli intrappolati tutti, e di potersi concedere l'agio di sferrare il colpo omicida a tempo debito. Ma Candy, che era stata così vicina al nemico solo qualche minuto prima, ne sentiva già l'approssimarsi. L'aria nel glifo aveva un sentore amaro.

«È a qualche metro da qui» mormorò.

«Non preoccuparti» disse Malingo. «Andiamo. Riporta dentro il Saltamare.»

«Finnegan!» disse Candy. «Vuoi tirar giù di lì Deaux-Deaux?»

Finnegan scoccò a Candy uno sguardo frustrato. Chiaramente voleva affrontare Carrion subito, quali che fossero i pericoli o le conseguenze. Ma capiva anche che la maggioranza era contro di lui e non protestò oltre. Invece si protese e afferrò Deaux-Deaux per la vita, dicendo:

«Un'altra volta, Salterello! Si parte!»

Non aveva finito di parlare che un fiotto di energia percorse il glifo, anche se non era affatto scorrevole come prima dell'impatto. Il motore suonava più gutturale, e la luminescenza che attraversava lo scafo baluginava come una lampada che sta per fulminarsi.

Candy teneva d'occhio Carrion. Sapeva che avrebbe reagito, dopo aver visto trascinare Deaux-Deaux dentro l'apparecchio, e aveva ragione. Accelerò all'istante, urlando qualcosa a Letheo. Il Ragazzo Bestia prese a correre e sfoderò un pugnale dalla lunga lama.

Malingo si protese e prese Candy per mano.

«Aiutami a fare questo!» disse. Lei gli passò il braccio sulla spalla. «Dobbiamo mettere insieme i nostri pensieri» disse lui. «E far volare questa cosa.» Si chinò su di lei, come per parlarle in modo più confidenziale. «Mi ha confuso tutti i pensieri e non riesco a riflettere bene.»

«Non preoccuparti, sono qui con te.»

Lui le sorrise. «Lo so.»

«Facciamo volare questa cosa. Reggetevi tutti quanti!» Di nuovo Candy scoccò un'occhiata a Carrion. Era a quattro, cinque passi dal glifo e borbottava qualcosa. Era un incantesimo? Poche parole per disfare con la magia una cosa che era stata creata dalla magia? «Sei pronta?» chiese Malingo a Candy. «Prontissima.» «Alzati» mormorò Malingo. Lei vide la parola nella mente? «Alzati» disse. Non successe nulla.

«Perché non si muove?» chiese Tria. «Candy. Fallo volare!»

Il Sire della Mezzanotte era quasi su di loro, la mano tesa verso il marchingegno come se intendesse semplicemente trattenerlo lì, mentre nell'altra mano levava il bastone, pronto a colpire il glifo come un uovo... «Dobbiamo farlo insieme» ripeté Malingo. «Sì» disse lei. «Un respiro...»

Inspirarono insieme, ed emisero la parola con lo stesso sospiro.

I.»

T

A

Z

L

«A

Questa volta il glifo obbedì, e si levò nell'aria con sorprendente scorrevolezza nonostante fosse ammaccato. Carrion lo colpì col bastone, ma era in ritardo. Il glifo già decollava. I viaggiatori sentirono un sussulto, ma il glifo rimase indifferente. Salì oltre la portata di Carrion, infrangendo i rami mentre si allontanava dagli alberi.

La luna li aspettava. La tempesta si era spostata a nord, e il cielo era vasto e luminoso.

«Non ci posso credere» disse Candy con voce roca.

«A cosa, alla luna?» disse John Dispitto.

«No. Che sono viva. Sono viva! Grazie, grazie; grazie a tutti voi: sono viva! Siamo tutti vivi!»

 

44

Il Principe e il Ragazzo Bestia

 

Carrion tornò nella Casa dell'Uomo Morto in preda a una furia cieca.

«Letheo!» urlò. «Vieni qui! Adesso!»

Letheo aveva già assistito alle scenate di malumore del Principe della Mezzanotte. Erano assolutamente sgradevoli. Ma non poteva fuggire. Intanto, non c'era un posto dove fuggire, e poi si sentiva malato e debole. Il malessere del suo sangue lo dominava in modo potente; e la sola speranza di una cura, per quanto temporanea, era la medicina che Carrion possedeva. Senza di essa, Letheo si sarebbe ridotto a un essere rettiliforme avido di sangue.